Il capitale nell’Antropocene

Quanti di noi fanno quotidianamente uno o più gesti che vanno nella direzione della tutela dell’ambiente? Molti? Tantissimi? Bene. Si tratta di una forma di empatia anche piuttosto vistosa...

Quanti di noi fanno quotidianamente uno o più gesti che vanno nella direzione della tutela dell’ambiente? Molti? Tantissimi? Bene. Si tratta di una forma di empatia anche piuttosto vistosa che, soprattutto negli ultimi vent’anni, ha preso campo ed è divenuta un soglia comportamentale da cui è difficile prescindere. Ci viene detto che se utilizziamo la borraccia riutilizzabile invece del bicchiere di plastica monouso facciamo un favore alla Madre Terra. Ed è vero.

Ci viene ripetuto che, durante la giornata internazionale del risparmio energetico, se illuminiamo di meno e sprechiamo meno, è un bene per l’ecosistema. Ed è vero. Ci viene poi detto che se comperiamo un’auto elettrica e la ricarichiamo alle colonnine apposite, invece che spargere veleni per l’aria è una grande mano che diamo all’ambiente così percosso dallo sviluppo globale. Ed è vero, molto vero anche questo.

Non vi è nulla di sbagliato nell’essere più virtuosi nella quotidiana attitudine a gestire gli sprechi, a ridimensionare l’impatto nostro, singolo nei confronti del mondo che ci circonda e ci ospita. Ma non possiamo abituarci a pensare che questo faccia, purtroppo, la differenza e sia, sostanzialmente, l’unico modo per arrestare la crisi climatica, l’insostenibilità tra modernità e natura, tra presenza totalizzante umana e rapporto con l’interezza complessa di Gaia.

Kōhei Saitō lo abbiamo già incontrato quando abbiamo trattato dell’ecosocialismo come traiettoria nuova (e antica al tempo stesso) di un accostamento progressivo tra uscita dal capitalismo e ingresso in una società altra che non ripetesse gli errori del passato e riproponesse quindi un modello economico tout court come imprescindibile essenza della comunità umana tanto locale quanto globale. Oggi lo riproponiamo perché la sua indagine si è ampliata.

L’ultimo Marx, quello che ripensa al progresso della storia non più soltanto in termini di sviluppismo, ma considerando soprattutto le tante implicazioni che il capitalismo viene ad avere – già negli ultimi decenni dell’Ottocento – rispetto allo sfruttamento del suolo, del sottosuolo e dei mari, occupa il proscenio di una rappresentazione del dramma odierno di una crisi verticale del sistema-Terra, quindi della Natura con la enne maiuscola. L’antropocentrismo, espressione dell’impero dominante del nord del mondo sul resto del pianeta, è la trama di una tragedia non certo esagerata nei toni.

I cambiamenti climatici sono, ormai da un po’ di tempo, uno degli elementi primi su cui la politica discute: lo fa da parecchio anche quella della sinistra di alternativa, di un comunismo che non si ferma alla feticistica adorazione dei ritratti di quelli che, con un ampollosità veramente insopportabile (perché ciecamente dogmatica), vengono definiti “i padri” del movimento, ma che, sull’onda di un libertarismo tutto nuovo, considera la questione ambientale come dirimente nella nuova critica anticapitalista.

Così come esiste un non trascurabile filone antispecista che, pur con tutte le contraddizioni che si riscontrano tra differenti scuole di pensiero, imposta la lotta per il superamento dell’attuale struttura economica e produttiva nella direzione di una liberazione dell'”animalità” da una “umanità” che soffoca i diritti degli animali tutti: umani e non umani, sfruttando miliardi di esseri viventi nel nome ovviamente del profitto, facendosi supportare dall’onnivorismo tradizionale, bi-trimillenario.

Kōhei Saitō ribalta la narrazione della bontà assoluta degli “obiettivi di sviluppo sostenibile” e mette tanti punti interrogativi sulle certezze che abbiamo quando parliamo di riconversione ambientale della produzione, di previsione degli impatti della nuova economia liberista anzitutto sui paesi in via di sviluppo che, per quanto possano esserlo, dipendono costantemente dalle scelte di quelli che hanno uno stile di “vita imperiale“. “Il capitale nell’Antropocene” (Einaudi, 2024) è un lucidissimo viaggio critico prima di tutto nelle nostre incrostate certezze.

Sia quelle ereditate dall’insegnamento dell’ecologismo di maniera, per cui è sufficiente, per sentirsi in pace con la propria coscienza ambientale, fare la raccolta differenziata, non sprecare l’energia elettrica, non consumare eccessivi quantitativi di acqua, avere sostanzialmente una vita da “new green deal“; sia quelle che, cattedraticamente, hanno la presunzione di sostenere che esisterebbe da qualche parte una sorta di nuova mano invisibile regolatrice dei meccanismi produttivi capace di tenere a bada gli eccessi del liberismo.

La rivalutazione del marxismo, come anticipazione critico-analitica del futuro delle società capitalistiche rispetto al tempo in cui il Moro è costretto a scrivere per coevità non superabile oltre la propria morte, avviene qui finalmente nella più libera enunciazione da parte di un intellettuale che non è stato influenzato dalla Guerra fredda, dal Socialismo reale, dalla burocratizzazione della critica dell’economia politica e del suo approdo ultimo di liberazione e non di concretizzazione di un altro-Stato e di un’altra-economia rispetto a quella attuale.

Kōhei Saitō riporta il marxismo al suo stadio maturo di antiteoria, di ricerca propriamente tale, di studio costante dei rapporti di forza sia tra le classi sia tra l’umanità e il resto del mondo: la Natura non viene più considerata come un qualcosa di accidentale, di dipendente dalla soddisfazione del mero benessere della sola specie umana, ma assume i connotati della vera importanza, dell’obiettivo finale di un andare oltre il capitalismo ritenendo questo processo ovvio nel progresso storico, dato per scontato, affidato ad un’attesa del “punto di rottura“.

La crescita economica è inarrestabile tanto quanto è insostenibile per il pianeta e, dunque, per noi tutte e tutti. Bisogna considerare l’era dell’essere umano, dell’uomo, dunque l’Antropocene, come una fase della vita terrestre in cui è l’esistenza stessa di chi vi si pone al centro ad essere messa in discussione: il consumo delle risorse del pianeta è il limite di questo capitalismo divoratore di ogni bene comune. Un concetto quest’ultimo che torna e ritorna nella articolatissima esposizione del filosofo nipponico.

Non per una qualche forma di nostalgismo primitivista, ma perché, sempre ritornando al Marx critico nei propri confronti su una visione di ineluttabilità progressiva della storia umana nel mondo, le esperienze comunitariste dei mir russi e delle vecchie società germaniche pre-capitalistiche inducono a mettere sotto la lente della considerazione di più alternative di futuro una linearità dello sviluppismo che, oggettivamente, pare già ampiamente messa in discussione dalle crisi cicliche del capitale moderno e odierno.

Nel momento in cui si parla di economia in crescita, del tutto spontaneamente si opera la correlazione con l’idea di una maggiore quantità di merci prodotte, di logica del benessere materiale consegnata all’immagine del molto e non dell’utile. La crescita del Prodotto interno lordo di ogni paese è messa sullo stesso piano dell’aumento di tutta una serie di bisogni fittizi che vengono (o verrebbero) indotti da una parallela e intersecante implementazione delle tecnoscienze.

Tutto ciò non fa che esponenzializzare i consumi che necessitano di reti di approvvigionamento sempre più capillari e, quindi, lo sfruttamento del mondo per il sostentamento di una esigua parte della popolazione esclusivamente umana (tutti gli altri esseri viventi sono messi al servizio dell’ἄνϑρωπος (àntropos: uomo) e la crescita dell’economia diviene una gigantesca, immensa trappola globale. Saitō mette in guardia i detrattori della decrescita felice: non è retoricamente ascrivibile ad una banale rappresentazione di un moderno pauperismo.

Come possibile scelta politica, il rallentamento della crescita non viene preso in considerazione perché significherebbe mettere in discussione un modello gestionale della struttura attuato anche attraverso l’azione di governi che hanno tutto l’interesse ad essere compiacenti e servili nei confronti del capitale. Il dibattito sulla decrescita, del resto, non è nuovo; ma può avere una rilevanza ulteriore proprio oggi, nel momento in cui la torsione iperliberista si avvita su sé stessa e mostra tutti i limiti temporali del caso.

Non ci si può più permettere una sorta di “neutralità politica” nei confronti del tema della decrescita: Latouche – sottolinea Saitō – la pensava come una proposta che non fosse né di destra né di sinistra. Ma oggi, in tempi in cui la Natura è vista come una questione di interesse particolare da una risicatissima stretta cerchia di potentati economici e politici mondiali, il resto della popolazione deve assumerla come una lotta nettamente di parte: non c’è alternativa possibile al capitalismo se non quello che egli chiama il “comunismo della decrescita“.

Tolto il marxismo dalle catene del Novecento, che lo avevano imbrigliato nella sterilità dogmatica e nella venerazione integralista dell’ottusità fideistica in un futuro esclusivamente affidato ad un operaismo di riscossa al di fuori del quale tutto era eresia, finalmente si può riconsiderare lo studio della Natura fatto da Marx per quello che è: qualcosa di più di un presentimento, qualcosa di meno di una sicurezza di quello che un giorno sarebbe stato l’inviluppo capitalistico nella cecità globalizzatrice dell’espansione delle merci ovunque e comunque.

Per questo ripensare al comunitarismo agrario e alle forme sociali in cui l’economia di mercato non si è mai prodotta, ottiene l’effetto di rimettere un po’ d’ordine nella rilettura di importanti scritti come la “Critica al programma di Gotha“: la condivisione della ricchezza prodotta mediante l’utilizzo dei beni comuni è la premessa non per un aumento dei bisogni, ma per la soddisfazione di quelli che via via si presentano. I beni cosiddetti di “consumo emozionale” non avrebbero più alcuna ragione d’essere in un sistema collettivista, cooperativo che non punta all’accumulazione.

Marx scrive di “ricchezza collettiva“, traducibile anche in “ricchezza sociale” (il termine tedesco è preciso: “genossenschaftliche Reichthum“) e che sembra fare riferimento ad una simmetria tra comunitarismo dell’est e dell’ovest: ogni traduzione pratica di un principio di eguaglianza sociale, civile e culturale è la testimonianza dell’alternativa possibile ad un sistema corruttore della Natura in quanto tale, della singola natura delle essenze quanto delle esistenze senzienti.

Il teorema liberista del capitalismo che crea ricchezza è smentito nei fatti ed è, nella pratica, l’esatto contrario: crea scarsità. Di beni essenziali, di mezzi per approvvigionarsene, di mezzi di trasporto, delle pure insufficienti possibilità di migliorare la propria esistenza se si è in uno dei tanti sud del mondo. Kōhei Saitō fa l’esempio del terreno: tanto le case quanto gli appezzamenti agricoli sono oggetti di uno sfruttamento irrefrenabile. Il prezzo di un piccolo appartamento a New York come a Tokyo può salire fino a centinaia di milioni di yen.

La speculazione edilizia e quella agricola sono figlie di un sistema che depreda senza curarsi delle conseguenze. Non c’è praticamente più nulla che possa essere definito con contezza come “bene comune“: ogni cosa, ogni bisogno di qualcosa è soggetto alla legge della domanda, dell’offerta e del prezzo a cui comperarla. Ammesso che ce la si possa permettere. L’abbondanza è una effimera rappresentazione di una ricchezza bugiarda e ipocrita. La produzione aumenta ma la domanda si contrae.

A questa enorme mole di beni inutilizzati o destinati ad una sola parte del globo, corrisponde uno sfruttamento schiavistico delle lavoratrici e dei lavoratori, pagati pochissimo, utilizzati tantissimo, privi di diritti sindacali minimi e senza un corrispettivo di diritti sociali, civili ed umani nell’ambito dei loro singoli paesi. Qui la questione democratica si pone come dipendente direttamente dalla struttura economica.

Scrive Saitō: «Un tempo, gli esseri umani lavoravano solo alcune ore al giorno e una volta ottenuto ciò di cui avevano bisogno, avevano modo di rilassarsi. Oggi, invece, il tempo è denaro e pur di ottenerlo siamo disposti a lavorare per lunghi periodi agli ordini di altre persone». Si tratta di una moderna declinazione dell’antico schiavismo: vivere per lavorare e regalare il prodotto del proprio lavoro al padrone dell’impresa che accumula sempre più profitti. Il ritorno prepotente sulla scena della modernità di quella che Marx chiamava la “povertà assoluta” (non avere più un lavoro e morire di fame) è un dramma tristemente diffuso e attuale.

Nel mondo vi sono circa due miliardi e mezzo di salariati. Di dipendenti dalle scelte delle grandi multinazionali che costituiscono cartelli e oligopoli nei vari centri di competizione globale. Un minuscolo gruppo di miliardari possiede il PIL di intere nazioni e controlla il debito di grandi paesi. La sproporzione di forze tra chi osteggia il sistema capitalismo e i capitalisti stessi è davvero enorme. Ci si potrebbe pensare rassegnati, attendisti, incapaci di agire perché tutto è contro chi si pone come alternativa.

Le forze in campo reagiscono violentemente, da sempre, se qualcuno ne mette in forze la perpetuazione che si sono data con l’affermazione del privilegio sul diritto comune. Ma questo non è il momento della rassegnazione. Riscoprire il comunismo nella necessità della decrescita, liberando questi due concetti dal peso e anche da una certa ovvietà del passato, serve a rimettere in moto le energie del presente. Per quanto possa sembrare strano dati i rapporti di forza, nessun sistema economico è eterno.

Concludiamo con un monito molto utile del nostro filosofo giapponese: «…va quindi frenato il desiderio di dipendenza dallo Stato o dagli esperti per seguire la strada dell’autogestione e della solidarietà reciproca». Non è una velleità, ma un programma politico di tutto punto. Non più il mercato, meno Stato, più beni comuni e collettivismo produttivo.

L’utopia non questa, ma ritenere che questo disordine globale possa risolvere le proprie contraddizioni e continuare ad esistere per altri secoli. La sua incompatibilità con la Terra è manifesta, evidente. Solo chi ha dei privilegi da proteggere negherà il presupposto di questa inconciliabilità fra privato e pubblico, fra impresa e lavoro, fra capitale e mondo. La direzione è la riparazione della frattura del metabolismo tra umanità, animalità e pianeta. Al valore di scambio va sostituito il valore d’uso.

La cosa semplice che è sempre, ovviamente, difficile fare.

IL CAPITALE NELL’ANTROPOCENE
SÃITO KŌHEI
ENAIDUI, 2024
€ 19,00

MARCO SFERINI

5 marzo 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria


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