Fare cultura per un divenire della cultura stessa, per un suo sostanziarsi nel nostro mondo. Noi la pensiamo sempre e soltanto in chiave positiva, ma è davvero così da dare per scontato il “valore culturale” a prescindere da tutto e da tutti? Che cos’è, dunque, la cultura? Manlio Sgalambro, in una affascinante intervista televisiva – in cui, peraltro, rievocava il suo sodalizio con Franco Battiato in una comunanza di difformità dal consueto corso degli eventi e dei proponimenti umani – esprime a parole ciò che si può sintetizzare come una rarità critica: l’ipotesi di una dismissione dell’apodittica concezione dell’intoccabilità della cultura.
Non tanto per stabilire una “controcultura” che, quasi per piglio narcisistico, potrebbe scadere nella facile obiezione del mero contrappunto (essere contro per il semplice fatto di non trovare altra natura propria se non la difformità rispetto a ciò che già esiste), quanto per regalare alla cultura la possibilità di dirsi “qualcosa“, di esserlo per davvero e non di sembrare o apparire scientista da un lato e troppo saccentemente ontologica dall’altro (ergo, data come parte dell'”essenza” scontata dell’essere stesso).
Prima di tutto dovremmo considerare il fatto che esistono tanti tipi di culture. Consideriamo la nostra cultura personale, quella che è, sostanzialmente, il frutto del rapporto diretto tra noi e ciò che ci circonda: vogliamo definirla più semplicemente come il “frutto dell’esperienza“? Possiamo senz’altro farlo, perché una parte del sapere di ognuno di noi è direttamente connesso con ciò che abbiamo constato più volte, verificato e sperimentato. Sia che si tratti di un lavoro, di una attività imposta dalle regole della società, sia che, invece, si tratti di un altro tipo di attività, magari espressione di quello che si potrebbe etichettare come “puro piacere“.
A questa cultura del tutto singolare e specifica, che ci riguarda tanto quanto l’essenza nascosta e inconscia che ci alimenta di giorno in giorno, si può affiancare invece la cultura acquisita con lo studio e la conoscenza volontaria: quando vogliamo sapere, avere delle nozioni nuove rispetto a ciò che già è in noi, leggiamo, osserviamo meglio, studiamo e, quindi, applichiamo la nostra mente all’acquisizione delle parole e dei concetti che ci servono come mezzo di interpretazione del reale e dell’esistente. Si parla, in questo caso, di “complesso di conoscenze” che si simbiotizzano con quelle che sono le tradizioni e, più in generale, la πρᾶξις (pràxis).
Ne discende che la formazione culturale di ciascuno di noi è qualcosa di molto più complesso rispetto alla semplice riduzione ad una “cultura personale” del tutto intesa e declinabile al singolare: ciò che noi siamo è ciò che spesso pensiamo di essere. Se la cultura viene assimilata al concetto di “essenza“, in quanto caratterialità intrinseca dell’individuo, non si potrà mai affermare che abbiamo una “nostra” particolare cultura, perché non abbiamo nemmeno una nostra particolare essenza. Ciò che ci attraversa durante le giornate sono mille voci differenti, suoni che ci rimangono nella mente, visioni e sensazioni che ci appaiono nuove soltanto la prima volta che le percepiamo.
Ma già la seconda volta che ci ritornano alla mente e che, quindi, le facciamo rivivere attraverso noi, è francamente possibile rendersi conto che sono loro a vivere noi di loro: significato e significante fanno breccia, filosoficamente e, per l’appunto, culturalmente parlando, in una discettazione molto alla buona sul rapporto tra amore per il pensiero e il sapere e il sapere medesimo. Non potrebbe essere altrimenti, perché l’illusione di “essere” è affidata soltanto all’ingenuità di poter prescindere dalle influenze esterne.
Nessuno è dicibile come “io sono” e non può esserlo, perché è, dal momento che entra in contatto con la realtà fenomenica e sensibile, già altro da quello che potrebbe essere di per sé. Abbiamo scritto che la cultura è carattere, essenza e che l’essenza nostra è anche cultura: stiamo naturalmente parlando di tangibilità tanto sensibile (la corporalità che ci riguarda) quanto di immaterialità pensabile, metafisicità che pure è in noi e che noi sviluppiamo soprattutto quando pensiamo al di fuori di noi. La cultura non può, quindi, essere “conoscenza passiva“: se così fosse, sarebbe mediocre nozionismo. Nemmeno il sapere per l’ottenere una contropartita in termini di voti scolastici o prebende di altro tipo.
L’erudizione fondamentalmente semplice è diversa dalla cultura: la prima è un introitare dei concetti ed utilizzarli se interrogati o per scopi ben precisi. Appartiene più all’apparire rispetto all’essere. La seconda è un tentativo di formalizzare l’essenza, perché il provare ad interpretare la conoscenza mediante spunti personali, intuizioni che possono provenire proprio dalla sincretizzazione di più culture che si sono assimilate e che divengono altro rispetto a ciò che erano. Noi siamo, quindi, una mezzo di trasformazione della cultura che c’era in qualcosa che può vivere e rivivere in altre forme e modi.
Noi siamo, pertanto, attraversati dal passato remoto o recente che sia e siamo vissuti da tanti altri pensieri che sono stati formulati prima di noi: ecco che filosofia e cultura si incontrano e si interscambiamo di continuo. La voglia di conoscere è l’antitesi dell’erudizione nozionista perché è dialettica, mobilità mentale, emotiva, persino fisica; mentre la necessità uccide la conoscenza vera e somiglia molto ad un continuo, ripetitivamente pusillanime riportare senza provare a capire, ad interpretare e, quindi, farsi attraversare dai pensieri della precedenza rispetto all’attualità in cui riteniamo di essere.
Non per niente, quando ci riferiamo ad una “valorialità” culturale, lo facciamo intendendo il fatto che alla cultura si accompagna quello di “educazione” che, etimologicamente parlando, proviene dal latino “educere“, quindi un vero e proprio “tirare fuori“, “trarre da…“. Il tentativo è quello di estrinsecare dal contesto in cui si vive e si sviluppa un modello culturale una approssimativa stabilizzazione dei reciproci comportamenti, così da fare in modo che educare voglia poter essere sinonimo di rapportarsi in modo uguale a come si vorrebbe che gli altri facessero con noi.
Un laicamente evangelico riferimento etico al più religiosamente noto precetto cristiano: «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te». Nell’enunciazione del principio del “valore” della cultura, intesa appunto come portatrice di una serie di precetti educativi, si può riscontrare una semplicità che, tuttavia, è solo apparentemente tale. Nell’evoluzione progressiva non solo del linguaggio ma, sostanzialmente, dei rapporti sociali, civili e morali, si è registrata una multifunzionalità dei termini: “filosofia” e “cultura“, da binomio sincretico e quasi equipollente si sono via via distaccati e si è constatata la nascita di una “filosofia della cultura”.
Una indagine proprio sull’origine del fenomeno, sulle sue trasformazioni e sul suo essere, comunque, un fattore intrinsecamente legato alla socialità e alla strutturazione delle differenti forme di aggregazione umana e di questa in relazione al resto dell’esistente. Il dibattito che si è sviluppato in merito ha anzitutto messo al centro il tema della veridicità dei temi trattati sul terreno filosofico e su quello culturale: in sostanza, chi si avvicina di più alla concretezza come elemento di espressione della verità oggettiva dell’essere e del divenire?
Qui i diversi approcci dei pensatori anche moderni si sono prodotti in una serie davvero molto ricca di affermazioni, per cui la cultura prevarrebbe a volte sulla filosofia come elemento conscio collettivo e, quindi, tratto distintivo di una identità che, tuttavia, non sarebbe immutevole nel tempo, mentre per altri sarebbe la filosofia a possedere quelle pecularità capaci di attribuirle un minore approssimazione nei confronti della veridicità rispetto al più fumoso e complesso “ambito culturale” (proprio inteso come prodotto non singolare ma corale).
Il professor Heidegger, ad esempio, in “Pensieri-guida sulla nascita della metafisica, della scienza contemporanea e della tecnica moderna” (edito da Bompiani, 2014) tenta un ragionamento sul destino della metafisica, sui passi scientifici della modernità novecentesca e non c’è dubbio sul fatto che la sua definizione di cultura come un insieme di elementi ontici, del tutto singolarmente espressi e concepiti e, quindi, impossibilitati a renderci un qualcosa di vero nel ritorno che possono avere sul piano sensibile, favorisca la filosofia come luogo in cui prende avvio il conoscibile.
L’ontologia heideggeriana è, a tratti, stucchevole e fastidiosa, ma può essere utile per cercare di avere una opinione uguale e contrario proprio riguardo all’oggettività dell’ente e del suo rapporto con il soggetto che, ad esempio sul piano della tecnica, lo esamina, lo manipola e lo trasforma seguendo comunque una linea naturale per cui la materia si comporta in un modo che ha del “prestabilito“, semplicemente perché non è indotto dal soggetto-umano che la osserva, la studia e ne eviscera – per così dire – i più reconditi, intrinseci e ancestrali misteri.
La cultura, quindi, mano a mano che ci avviciniamo ad una sorta di coevità del pensiero odierno, diviene disomogeneizzata rispetto al passato e subisce tutte le contraddizioni del moderno capitalismo che la “ininfluentizza“, rendendola un qualcosa di così eterogeneo nella liquidità della società descritta da Bauman che depotenzia le singolarità e mortifica il desiderio di una ritrovata “identità culturale” tanto dell’individuo quanto della collettività di cui fa parte. I paradossi si susseguono velocemente in un mondo in cui si scambia per cultura ciò che è flusso del pensiero comune, moda linguistica.
Ci si rende sempre più conto che la massa di dati, concetti, parole e immagini che ogni giorno ci pervade è potenzialmente un enorme patrimonio culturale ma, alla fine, si precipita in una nevrosi da accaparramento compulsivo che frustra la conoscenza, umilia l’intelligenza (perché svilisce le peculiarità della nostra mente, che è limitata pur essendo notevolmente capace di autocoscienza ed autocritica) e ci fa piombare in uno sconforto dettato dall’impotentia agendi, dalla constatazione che la formazione culturale, che una nuova filosofia della cultura e una nuova etica sono preda di una sorta di condivisione totale che depersonalizza e banalizza.
Ciò che viene scritto ogni giorno sui social ne è la prova: non si riflette ma si getta in pasto alla rete qualunque cosa ci passi per la testa e, così facendo, si resta imbrigliati in un desiderio spasmodico di protagonismo che uccide la riflessione e depotenzia di molto le capacità elaborative della nostra mente. Se proprio teniamo ad un “valore culturale” moderno e ad un suo tentativo di nuovo sviluppo, dovremmo limitare l’uso compulsivo delle piattaforme e riconoscerci nel nostro rapporto non con la virtualità bensì come la realtà che ci circonda.
Il ritorno all’identità culturale è possibile soltanto se la cultura la si costruisce insieme, de visu, in prima persona: oltre all’alienazione personale, materiale (maxianamente intesa nel risvolto economico del moderno capitalismo europeo e poi globale), sappiamo che ne può esistere una mentale che influenza, oltre agli stati d’animo, anche la nostra fisicità, le nostre abitudini e le relazioni tanto interpersonali quanto col resto dell’esistente. Guardarsi da questa fagocitazione è recuperare anzitutto il desiderio e la passione per la conoscenza, col fine di amarla e di provare un certo piacere nel sapere per il sapere e per andare oltre ciò che si sa.
MARCO SFERINI
25 maggio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria