Il punto è questo: i diritti si tengono tutti insieme o, se anche uno viene scientemente perso per strada, volutamente dimenticato, consapevolmente lasciato indietro, il sodalizio rischia di infrangersi contro la barriera di qualche tutt’altro che temeraria pregiudizialità. Il governo Meloni vara un disegno di legge in cui si introduce la pena dell’ergastolo per il reato di femminicidio, così descritto dagli estensori:
«Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità, è punito con l’ergastolo».
Più che giusto, anche se il “fine pena mai” è sempre biasimevole perché separa il diritto da un risvolto opportunamente riabilitativo e rieducativo che, in un certo senso (la linea di confine delle opinioni qui è esilissima), è costituzionalmente previsto e, dunque, non può trovare applicazione là dove per il reo non è pensata una fase della sua vita successiva alla detenzione e oltre la stessa. Ma le destre non si pongono questi problemi.
La loro cultura del diritto, il più delle volte, si concentra sulla repressione, sull’esclusione dal contesto sociale, sulla relegazione delle “mele marce” in un solo paniere, credendo così di operare una sanificazione delle comunità in cui si vive, dividendo virtuosi e obbedienti da malavitosi e ribelli. Le distinzioni, anche in casi molto differenti fra loro, sono trascurabili quando si tende a generalizzare sempre e comunque.
Non vi è alcun dubbio però sul fatto che la piaga della violenza contro le donne è un prodotto di qualcosa di più – purtroppo – del singolo istinto omicida di un uomo che si infuria per l’inadempienza domestica della moglie, per i tradimenti coniugali, per il diritto della compagna ad avere anche suoi precisi spazi di vita, lavoro, svago, impegno. Se ciò è così tante volte replicato in sempre nuove forme e in centinaia di truculenti casi ogni anno, il perché è a monte della Legge.
Ed è il perché si chiama “patriarcato“. Per quanto possa essere divenuta famosa questa parola che identifica il sistema di predominanza maschile sul femminile, dell’uomo sulla donna, della presunta plurisecolare superiorità del marito sulla moglie, del fidanzato sulla fidanzata, del ragazzo sulla ragazza, del padre sui figli (e sulle figlie in particolare), la si conosce sempre molto poco perché, proprio nel suo inflazionato utilizzo, se ne rischia la cocente banalizzazione.
Il patriarcato diventa un modo di definire la catena di comportamenti lesivi della libertà della donna entro un contesto che, anche oltrepassata la porta della casa del marito (proprietà morale e materiale sovente si mescolano fra loro…), non termina in un contesto sociale in cui gli anticorpi sono così formati da respingerlo quasi aprioristicamente. Il rinvigorimento della potenza maschile è suggerito anzitutto dagli esempi governativi.
Mentre l’esecutivo di destra-destra si mostra modernamente capace di interpretare la lotta al patriarcato stesso con un atto repressivo nell’ambito del diritto e dello Stato di diritto stesso, non fa ogni giorno che comprimere quelli che sono importantissimi aspetti cultural-sociali legati all’espansione di tutta una serie di interazioni tra la femminilità, il femminismo e quello che è il molto impropriamente detto “mondo-donna” col resto del mondo stesso.
La chiave di lettura delle destre è nettamente maschile: a partire dai “fratelli d’Italia” che, pur richiamandosi al popolare nome dato al “Canto degli Italiani“, non supera la declinazione unigenerica un po’ desueta ma comprensibile a metà Ottocento e decide di chiamarsi così, magari invocando una sorta di neutralismo lessicale affidato al plurale. Ma, obiettivamente, fu proprio Giorgia Meloni, in principio della sua azione di governo, a richiedere che a lei ci si rivolgesse come “al” e non “alla” Presidente del Consiglio dei Ministri.
Piccolezze? Nemmeno tanto, perché sono il rimarchevole rimarcamento di una continuità con un passato politico in cui la figura femminile è sempre stata presa in considerazione come elemento circostanziale, subordinato alla direzione maschile di un movimento nato dalle ceneri di un fascismo che nella donna vedeva la moglie-madre, angelo del focolare e molto poco di più di questo. Se qualcuno ha una idea della composizione del Gran Consiglio del Fascismo, si potrà convincere di ciò.
L’insieme del disegno antisociale composto dalle politiche del governo in questi ultimi tre anni non lascia presagire una inversione di tendenza nella considerazione dei diritti tutti, sociali, civili, umani, come un unicum su cui intervenire per migliorare ogni singolo settore della vita quotidiana di ciascuno e dell’intera collettività. Non si tratta di diversificare tra uomini e donne, maschi e femmine, ma promuovere un avanzamento delle opportunità senza distinzioni di sorta.
Questo è previsto dalla nostra Costituzione là dove la garanzia dei diritti è universale come lo è il suffragio per l’elezione delle Camere, luogo deputato dalla sovranità popolare a legiferare, per l’appunto, prescindendo dall’identità sessuale o di genere. Ovvio che il problema della violenza sulle donne è un’emergenza davvero negativamente imponente. Ma se non si lavora a monte di questo problema, se non si inizia a considerare l’uguaglianza come struttura sociale oltre che come principio ideale, non si faranno molti passi avanti.
Ciò vuol dire che senza un’adeguata rete di tutele fondamentali non può veramente farsi giustizia delle discriminazioni subite dalle donne come da qualunque altro soggetto reso più debole dell’impianto patriarcale, liberista e capitalista. L’ergastolo per il femminicidio è, per quanto applaudibile da chi vuole un inasprimento delle pene per reati veramente tremendi, una bandierina propagandistica messa lì l’otto marzo del 2025 in corso al fine di mostrare le buonissime intenzioni del governo.
Ma la donna “in quanto tale” dovrebbe essere garantita in tutta la sua libertà: se vuole o se non vuole fare figli; se vuole o se non vuole avere una famiglia tradizionale; se vuole amare un uomo o se vuole amare una donna; se vuole essere single così come se vuole convivere e non sposarsi. Esempi di comportamenti se ne possono fare a bizzeffe. Ed in ognuno di questi contesti, il governo è intervenuto sempre stigmatizzando l’autonomia femminile, l’indipendenza della donna, incentivando le nascite con bonus economici, idealizzando la casa-focolare d’antico sapore italico.
Vogliamo citare ancora la Presidente del Consiglio quando esternava nei suoi tuoneggianti comizi: «Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana». Identità propria, femminilità non anteposta ma compresa tra maternità e appartenenza religiosa: per cui questo quadriumvirato dell’iconografia concettuale del proprio essere corrisponde, alla fine, al programma di governo.
L’essere donna non vuol dire essere femminista: il femminismo è l’esasperazione di una condizione che non deve essere di inferiorità nei confronti dell’uomo ma che, rivendicando la parità assoluta, si potrebbe dire l’unica, vera parità in quanto tale, mette in discussione una sorta di leggera primazia dell’uomo, del maschio, del pater familias come del capo di governo e di Stato. Ci sono donne, e non solo di destra, che hanno bisogno di far venire fuori quel po’ di maschile che c’è in loro e, per questo, vantano una capacità maggiore di consapevolezza femminile in questo.
Di contro, se un uomo mostra qualche attimo di femminilità che gli è intrinseca, quella stessa cultura di destra, tollerante verso la donna forte e un po’ machista, dirigente indefessa e incrollabile nella fede neonazionalista, lo taccia di cedevolezza antivirile, di omosessualismo a tutto spiano, disconoscendo così i fondamentali di una analisi introspettiva psicoanalitica che, insieme alla psichiatria moderna, ha affermato scientificamente la compresenza di istintività uguali e differenti per genere entro l’intimo nostro.
La destra non conosce commistioni, guarda con sospetto ai matrimoni misti di ogni tipo. Deve aggiornare il suo retrivo vocabolario, nonostante faccia ancora mille gaffes da più alti spalti delle istituzioni italiane. Così sembrano trascorsi i tempi in cui ci si indignava se un ragazzo di colore e una ragazza bianca si fidanzavano o si sposavano. Ma, stando alle cronache, non sembrano poi trascorsi così tanti lustri dalla larga condivisione del razzismo come fenomeno pseudo-culturale di massa (“La difesa della razza“, docet…).
Una donna, un uomo, chiunque a prescindere dall’identità di genere, sono altro ogni giorno su questa Terra, in questa Italia: sono sorelle, fratelli, madri, padri, figlie e figli. Ma sono anche studentesse e studenti, lavoratrici e lavoratori, disoccupate e disoccupati, precarie e precari. Sono malate e malati che attendono tempi biblici per esami diagnostici di primaria importanza, perché vitali. Sono anziane ed anziani messi ai margini da sempre meno risorse che arrivano ai comuni per i servizi sociali.
L’interezza composita della rete dei diritti è inseparabile negli stessi, è indivisibile proprio come lo è la Repubblica nel suo essere territorio su cui il popolo vive e ha tutte le facoltà di poterlo fare nella pienezza delle libere espressioni singolari, nel pieno rispetto della convivenza sociale, civile, culturale, morale. Per queste ragioni, se anche sembra che il governo ne abbia fatta una giusta, non gli si può concedere questa medaglia. La repressione in sé e per sé non ottiene nemmeno il minimo effetto di giustizia che le si vorrebbe riconoscere o attribuire.
Sterile propaganda mediatica per mostrare la caparbietà della fermezza della destra rispetto al “buonismo” della sinistra. Ma chi rivendica un diritto completo all’esistenza degna e libera è quel mondo progressista che poi si divide in tanti rivoli e non è capace di offrire una alternativa di governo ad un’Italia che ne avrebbe urgentissimo bisogno. L’otto marzo non è solo l’otto marzo. Deve essere sempre. Altrimenti rimane una ricorrenza da calendario laico e repubblicano.
Quello che Meloni, Salvini e compagnia non hanno nei loro uffici a Palazzo Chigi ma, soprattutto, nelle loro menti, nelle loro intenzioni, nel loro programma di governo.
MARCO SFERINI
8 marzo 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria