Guicciardini, Machiavelli e un pizzico di Marx intorno al realismo storico

Nella sua polemica con Machiavelli, Guicciardini suppone che la Storia non sia un processo dialettico in cui si ripetono gli eventi seguendo delle determinate “leggi” del processo di evoluzione...

Nella sua polemica con Machiavelli, Guicciardini suppone che la Storia non sia un processo dialettico in cui si ripetono gli eventi seguendo delle determinate “leggi” del processo di evoluzione (o involuzione) umana. Ogni fattore, all’origine, al completamento e alla fine di un singolo evento, di una data epoca o Era, è di per sé caratterizzante e non può essere assimilato ad altri accadimenti se non come mero esempio, in funzione di una correlazione a titolo di esemplificazione del presente, per comprenderlo e per meglio renderlo adeguato a sé stesso. Ma, differentemente da quanto appunto sostiene l’autore de “Il Principe“, non si può ritenere l’ieri ripetibile nell’oggi e nel domani.

E questo non tanto perché è letteralmente impossibile pensare di trasfondere le caratteristiche peculiari, ad esempio, delle civiltà greca e romana nel Trecento, nel Quattrocento e nei secoli a venire; ma piuttosto perché, non esistendo delle leggi dello sviluppo storico, per Guicciardini è inimmaginabile ritenere ripetibile i fasti passati della penisola italica in un periodo in cui la dominazione spagnola incombe e i suoi tentativi di preservare gli Stati regionali dalla lunga mano dell’imperatore Carlo V falliscono nonostante gli accordi con la Francia.

La Firenze medicea crolla, le repubbliche avanzano ma mostrano tutti i segni dell’oligarchismo fratricida: fazioni a non finire si contendono il potere ed è, oggettivamente, molto complicato spiegare a Machiavelli che l’osservazione del “particulare” consente proprio di affermare la teorizzazione – o, per meglio dire, la netta convinzione che Guicciardini porta con sé – della non universalità della Storia umana. Serve sempre una precisazione ulteriore quando si riportano le argomentazioni contenute sia nella straordinaria “Storia d’Italia” sia nelle “Considerazioni sui discorsi del Machiavelli” in riferimento all’esame circostanziato dei fatti in relazione al tutto, al sempre, ad un tempo praticamente infinito se ci si guarda indietro.

Queste considerazioni ad adiuvandum sono francamente improprie se si usa lo stesso metodo del Guicciardini, ossia del rifiuto un po’ aprioristico della comparazione delle epoche, dei metodi e delle conoscenze acquisite. Ma noi proviamo a non prendere in considerazione ciò e quindi, seguendo un punto di vista critico, ci poniamo entro i margini di una terzietà tanto storicistica quanto filosofico-politica della quaestio in essere. Del senno di poi, si sa, son piene le fosse, ma non possiamo prescindere dal materialismo dialettico e tanto meno da quello storico e, ergo, dal fatto che Marx ed Engels scoprono quella che, in quell’accavallamento bisecolare, tra Quattrocento e Cinquecento, è ancora una “legge dello sviluppo storico” ignota.

Quindi tutti quei «determinati rapporti necessari e indipendenti dalla loro volontà» di esseri umani che, pur non negando la volontà del singolo e il suo “particulare“, ne annegano le preziose differenze in una magmatica, indistinta sintesi del processo storico stesso che diviene nel momento in cui i contrasti tra le classi si acuiscono e fanno saltare da un periodo ad un altro dell’evoluzione del cammino umano. Se per Machiavelli è evidente la necessità dell’individuazione di una ratio della concatenazione di eventi che si producono e che dipendono dalle scelte, dai comportamenti, tanto dal pensiero quanto dall’essere dell’individuo e della massa, per Guicciardini questa ricerca non è soltanto inutile, ma è oltremodo dannosa.

Svierebbe dalla considerazione palese di una singolarità precipua del potere che prende forma e si sostanzia negli atti principeschi, papalini, reali e imperatoriali. Non c’è dubbio alcuno, ne convengono sia Machiavelli sia il suo competitor polemico, che il destino della gente comune è sovente in mano ad arbitrarie decisioni del singolo sovrano: ma, e qui sta un’altra grande differenza tra i due, il realismo deve prevalere sull’ipotesi, su una sorta di abbandono al sogno del futuro e alla riedizione troppo romantica del passato. Machiavelli è stato sovente presentato proprio come il teorico massimo di una realpolitik molto ante litteram rispetto ai secoli successivi.

Non che vi sia qualcosa di sbagliato in questo, ma la sua identificazione con una quasi spietata, ostinata aderenza alla concretezza dura dei rapporti di forza ha, per esempio, trascurato l’elemento classista della Storia: non tanto perché Machiavelli era impossibilitato ad essere un materialista storico ai suoi tempi; quanto perché si è dato per scontato che la sovrastruttura istituzionale, politica, religiosa ed anche culturale comprendesse tutto quello che era necessario agli esseri umani per cambiare il corso della loro esistenza. Mentre, in allora come oggi, i rapporti di forza tra le classi sociali erano, sono e rimarranno il motore inevolutivo o evolutivo dell’attualità e della Storia.

Se mettiamo Guicciardini, Machiavelli e Marx su uno stesso piano filosofico-politico per un istante, paragonandone il tasso di realismo e di afferenza con la realtà concreta dei fatti, non sussiste alcuna incertezza: il primo è nettamente il più lontano da una visione propriamente materialistica. E tuttavia, anche il Moro non è poi così completamente pensabile come il pensatore scientifico che ha assolutamente calato sé stesso entro i termini di un realismo a tutto tondo. Fino a che non parla del “regno della libertà“, Marx è un filosofo della scienza e uno scienziato della filosofia.

Segue quindi un approccio e una analisi che si discosta dall’interpretazione soggettiva, rintracciando nelle modificazioni che intervengono, di fase in fase, di secolo in secolo, il prodotto oggettivo dei rapporti di classe. Machiavelli, quando scrive “Il Principe“, pur non sollevando gli orpelli ideologici che Marx ed Engels avevano scardinato dal groppone proprio della storia umana, suscitando quindi un disappunto più materiale rispetto al piano ideale (gli interessi economici della borghesi ottocentesca, tanto per parlar chiaro), viene paradossalmente disapprovato da quelli che vorrebbe in qualche modo tutelare: re, principi, imperatori, papi.

Ugo Foscolo, ne “I sepolcri” traccia molto bene la fisionomia antipatica che il libretto ebbe presso molti amici ed ammiratori del segretario fiorentino: «…corpo di quel grande, / che temperando lo scettro a’ regnatori, / agli allor ne sfronda, ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue». Insomma, la figura del principe che si liberasse da una sorta di attitudine (anti)rinascimentale ad una decadenza politica figlia magari anche di altri tempi, pareva una speranza vana perché suonava, nelle orecchie dei potenti, come una sorta di cambiamento che oggi definiremmo “radicale“.

A Guicciardini il realismo politico machiavelliano pareva evidentemente un gettarsi tra le braccia della rassegnazione da un lato, per tutte quelle questioni che si situavano post res perditas e non avevano quindi nessuna corresponsione possibile con l’attualità del divenire del presente, così come il lanciarsi in una avventura quasi oniricamente ideale smentendo il realismo medesimo, nel momento in cui si poneva il confronto tra grandezza del passato e miseria del Quattro-Cinquecento. Nella valutazione successiva dei due uomini politici e di Stato, così come dei due eminenti intellettuali, non senza un qualche importante scarto ha pesato la differenza dell’approccio critico.

Mentre Guicciardini è una riscoperta del XIX secolo, Machiavelli è una presenza costante nel dibattito politico-istituzionale, morale e sociale immediatamente successivi alla sua morte. Rimane un realista, ma non si può non leggere nelle pagine delle sue opere un afflato ideale verso un repubblicanesimo che è, nella Firenze dei suoi tempi, così come nella Roma che ha scacciato i re, un punto alto della Storia, dell’umanità che si emancipa dal controllo aristocratico. Se si studia criticamente “Il Principe” non si potrà non ritrovare anche questi elementi di collegialità che il primo titolo, quello vero, “De Principatibus“, in qualche modo poteva lasciare rintracciare.

La figura del sovrano edotto, capace di amministrare con oculatezza e sapienza lo Stato, più si avvicina al nostro mondo moderno e più appare come un concetto declinabile nella pienezza di un buon governo che non distingue più tra repubbliche e principati. L’attualità dell’opera di Machiavelli risalta per l’analisi delle caratteristiche intrinseche ai mutamenti delle forme di Stato tra Quattro e Cinquecento e ciò che Guicciardini si ostina a non voler ammettere: prescindendo sempre da ciò che noi oggi sappiamo, almeno per quanto riguarda la valutazione storica degli autori e delle loro concezioni, non possiamo non affermare che Machiavelli vede bene un fil rouge nell’avvicendarsi dei poteri che reggono gli Stati.

Non che Guicciardini neghi un rapporto di causa ed effetto nel procedere della Storia, ma la differenza con Machiavelli, quella almeno più marcata, sta nel considerare «un grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente ed assolutamente, e per dire così, per regola: perché quasi tutte hanno distinzione ed eccezione per la varietà delle circunstanzie». Nessuna assolutizzazione è dunque possibile, intesa, naturalmente, come legge dei corsi e ricorsi storici. Ogni stagione del potere ha caratteristiche, quindi, se non irripetibili quanto meno uniche nel loro essere.

Quando si fa riferimento, nelle letture di oggi del “De Principatibus“, al concetto di democrazia, lo si deve intendere propriamente come esercizio del potere della moltitudine attraverso la forma repubblicana. Guicciardini entra in polemica anche su questo ma, forse anche più quando si tratta di parlare della “libertà” come stella di riferimento dell’agire del reggitore dello Stato. Il rischio – ammonisce l’autore della “Storia d’Italia” – è che si cada nella banalizzazione del concetto stesso (ne diamo ovviamente noi questa interpretazione del tutto soggettiva).

Sostanzialmente la rivendicazione dei diritti è possibile nel momento in cui c’è un substrato degli stessi, una condizione minima che permetta di alzare l’asticella tanto delle lotte quanto degli obiettivi che ci si pongono. La sfida tra realismo storico e singolarità degli eventi è tutt’oggi aperta: un bel dibattito che merita di essere ripreso, aggiornato e proseguito.

MARCO SFERINI

26 gennaio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Il portico delle idee

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