Mentre è partita la corsa a mettersi in coda per trattare con Donald Trump, la Cina tiene la posizione e si erige a bastione della “resistenza” contro quello che definisce «bullismo unilaterale» degli Stati uniti.
Pechino è, almeno per ora, praticamente da sola nel mantenere una linea dura contro la battaglia commerciale mondiale scatenata dalla Casa bianca. «Combatteremo fino alla fine», ha dichiarato ieri il ministero del commercio Wang Yi, confermando che non ritirerà i contro-dazi che entreranno in vigore alla mezzanotte cinese.
Se Trump dovesse imporre l’ulteriore 50% di tasse aggiuntive che ha minacciato, la sensazione è che la Cina prosegua l’escalation con una risposta simmetrica. Aggiungendo qualche nuovo ingrediente. Sui social, account solitamente informati sulle decisioni del governo ipotizzano un aumento dei dazi sui prodotti agricoli statunitensi, che rappresentano il principale settore di export americano in Cina.
Ma si vocifera anche di una svalutazione dello yuan per compensare le tasse aggiuntive e di un’inedita messa al bando dei film di Hollywood sui grandi schermi della Repubblica popolare. Un problema per diverse major, che hanno proprio nel mercato cinese una fondamentale fonte di guadagno.
Il governo prova a rassicurare gli investitori, al contempo bloccando la delocalizzazione di capitali e linee produttive all’estero. Secondo Bloomberg, il ministero del commercio ha contattato alcune aziende private tra cui il colosso della fast fashion Shein per sconsigliare lo spostamento di una parte della produzione fuori dalla Cina per evitare i dazi.
La Cina sa che la sua economia subirà un impatto dalla guerra commerciale, ma poggia le basi della sua “resistenza” su alcuni fattori che considera decisivi. Primo: il ruolo centrale delle sue catene di approvvigionamento. Pechino sa che l’abbandono completo della dipendenza delle imprese americane dai fornitori cinesi richiederà molto tempo per concretizzarsi.
Basti pensare che, nonostante il processo di delocalizzazione avviato dalla guerra commerciale esplosa durante il primo mandato di Trump, circa quattro iPhone su cinque vengono assemblati e spediti dai fornitori cinesi di Apple. Morale: ci vuole tempo, molto tempo, per far sì che altri paesi come India o Vietnam possano assorbire una parte della produzione in uscita dalla Cina. Lo stesso discorso, a maggior ragione visti i costi più elevati, vale per gli Stati uniti.
Secondo: nella graduatoria dei primi prodotti esportati negli Usa, la Cina è di gran lunga il primo fornitore. Ergo, un disaccoppiamento totale e, soprattutto, rapido appare difficilmente realizzabile. Con l’innalzamento dei dazi, Pechino spera che si finisca per incoraggiare il commercio triangolare, con altri paesi che acquisteranno i prodotti cinesi per poi rivenderli a Washington.
Terzo: la Cina è convinta di poter sfruttare il momento per migliorare i rapporti commerciali e diplomatici non solo coi paesi del cosiddetto sud globale, ma anche con l’Europa. Un segnale in tal senso è la telefonata di ieri tra il premier Li Qiang e la presidente della commissione europea Ursula von der Leyen, in vista del summit di luglio in cui non si escludono passi avanti nei rapporti bilaterali, indotti dal protezionismo trumpiano. Xi Jinping si prepara a ricevere il premier spagnolo Pedro Sanchez, prima di un tour nel Sud-est asiatico dove proverà a stringere nuovi accordi. «Anche gli altri paesi si renderanno conto che cedere non serve a nulla», dice Pechino.
Quarto: la leva delle terre rare e delle risorse minerarie. In caso di scontro, sono probabili ulteriori controlli o divieti di export di prodotti legati a metalli cruciali per elettronica, difesa e green deal. D’altronde, attualmente Pechino produce circa il 60% dei metalli delle terre rare del mondo e circa il 90% delle terre rare raffinate presenti sul mercato. Basti pensare ai magneti permanenti, fondamentali sia per la mobilità elettrica sia per i sistemi di armamento come i jet da combattimento: il 94% di quelli che arrivano in Unione europea provengono dalla Cina.
La scommessa di Xi è rischiosa, ma chiara: il mondo, Usa compresi, ha bisogno di Pechino. Se ci sarà un negoziato serio con Trump, non può essere condotto in ginocchio.
LORENZO LAMPERTI
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