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Marco Sferini

Grande Israele ieri e oggi: ebraismo e sionismo in lotta fra loro

Il progetto del “Grande Israele”

Nel 1947 l’Irgun Zwai Leumi (letteralmente l’ “Organizzazione militare nazionale“), nato da una scissione con l’Hagānāh (altro gruppo dell’estremismo sionista del primo Novecento il cui nome significava “Difesa“), pubblicava un manifesto in cui si veniva mostrando nella pratica l’idea del “Grande Israele” che avrebbe compreso, oltre a tutto il territorio del Mandato britannico anche quello dell’allora Transgiordania. Nella Genesi biblica si fa riferimento allo stesso concetto definendo una zona che, molto vagamente, va dal Nilo fino all’Eufrate. Mentre in Numeri ed in Ezechiele l’ampio territorio viene descritto come un luogo da condividere con gli altri popoli presenti.

Chi oggi ancora teorizza questa dimensione dello Stato ebraico (e non sono pochi nel governo di guerra di Netanyahu), dovrebbe ricordare le parole di Olmert che, riguardo questi teorizzatori ipernazionalisti, affermò nel 2018 che nulla di tutto questo poteva avere un qualche senso pratico nella realtà moderna e che, quindi, avrebbero fatto bene costoro ad abbandonare anche solo l’idea di poter realizzare oggi il “Grande Israele” di oltre tremila anni fa. Seppure con alcune differenze (visto che muovere guerra alla Giordania sarebbe alquanto impensabile…), il progetto rimane un obiettivo che riguarda tutto il Territorio palestinese occupato.

Smotrich e Ben-Gvir non fanno mistero di volere annettere ad Israele tanto quelle che loro chiamano “provincie di Giudea e Samaria” (ossia la Cisgiordania), quanto la stessa Striscia di Gaza. Ci si avvicina sempre più alla totale militarizzazione del piccolo lembo di terra tra il deserto e il mare, in cui l’88% dello stesso è precluso ai palestinesi che sono costretti, dall’avanzare dei carri armati su Deir al-Balah, a spingersi verso sud (dove il criminale governo di Netanyahu progetta di stiparli in un campo di concentramento al confine con l’Egitto), eppure non sembra ad oggi esistere altro piano per il Territorio palestinese se non quello che riporta alla mente un moderno Grande Israele.

A supporto di questa politica espansionista, fatta di premesse ultratrentennali di apartheid, colonizzazione spietata, segregazione, repressione preventiva, carcerazione di massa (anche di bambini e ragazzi…) sta un predestinazione non tanto politica, quanto antropologica: la cosiddetta “elezione divina” del popolo ebraico informa tutte quelle che sono le pregiudiziali antipalestinesi che non distinguono, proprio perché tali, tra terroristi di Hamas e popolazione civile che è dovuta vivere sotto l’organizzazione jihadista (sostenuta non poco dall’Israele di Netanyahu per contrapporla all’ANP) e che oggi viene propagandisticamente bollata con un marchio di infamia generale.

Sembrava impossibile, fino a che gli orrori di Gaza non si sono davvero esponenzializzati all’infinito, che una critica costruttiva nei confronti del governo dello Stato ebraico fosse possibile senza beccarsi l’accusa fin troppo inflazionata di “antisemitismo“. Oggi, proprio perché c’è un limite anche alle atrocità della guerra e a quello che questa parola può contenere, leggere, vedere e ascoltare le testimonianze dei giornalisti (a cui viene impedito di entrare nella Striscia per documentare le atrocità israeliane), i video e le inchieste sulle forze armate di Tel Aviv che massacrano centinaia di civili palestinesi nelle tende dei campi profughi, oppure in fila mentre sperano di poter avere un tozzo di pane, dell’acqua, un pugno di riso, oggi si inizia a sentire persino i liberali più moderati cambiare tono.

Quando inveterati sostenitori di Israele biasimano Netanyahu, Smotrich e Ben-Gvir e li bollano apertamente in televisione, senza mezzi termini, come “criminali“, si ha la sensazione che si sia davvero passato il limite angusto della parzialità del racconto e che, finalmente, anche se c’è voluto tanto tempo e oltre sessantamila morti (oltre a duecentomila feriti e l’80% delle case distrutte a Gaza), un po’ di oggettività trapeli nel racconto di quella che non è una guerra, ma un piano di sterminio del popolo palestinese: un genocidio. Il trauma del 7 ottobre non è stato cancellato: né nella memoria israeliana, né in quella del resto del mondo.

Ma l’enormità della tragedia della Striscia e del processo di colonizzazione sempre più acerrimo in Cisgiordania, fanno riflettere sulle vere intenzioni dello Stato ebraico. La teorizzazione primonovecentesca del grande paese del “popolo eletto” ritorna quindi protagonista di un dibattito che non può essere fatto linearmente – se non sul piano, per l’appunto, storico – ma che non è estromissibile dal contesto attuale: proprio perché riguarda la genesi del sionismo per come lo abbiamo conosciuto e per le torsioni ipernazionaliste che ha avuto dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Che cosa esattamente si deve leggere nella definizione delle Scritture o del Talmud riguardo l’elezione del popolo ebraico come “eletto” da Dio?

Nell’Esodo è scritto così: «Se osserverete il Mio patto, sarete il Mio tesoro speciale tra i popoli […]. Sarete per Me un regno di sacerdoti e un popolo santo» (19, 5-6). Nel Libro della Genesi, il patriarca Abramo viene benedetto dal Signore che gli promette un Terra per sé e per la sua innumerevole discendenza. C’è, quindi, un legame netto, diretto, non scindibile tra il possesso della terra e l’elezione del popolo ebraico a prediletto dalla divinità. Su questa diade si fonda la predestinazione che, però, rimane una caratteristica plurimillenariamente fraintesa (e tanto disputata anche per questo) in merito alla “superiorità” degli ebrei rispetto agli altri popoli, alle altre nazioni.

Siccome Dio c’entra in quanto prodotto umano per legittimare un potere, dobbiamo chiederci non cosa abbia voluto dire il Padreterno, bensì cosa abbiano voluto attribuirsi gli antichi. Pare evidente che il sentimento religioso abbia unito il popolo ebraico nelle peggiori avversità che gli sono capitate e che si sono rivelate sempre in forma di schiavitù e servaggio. L’emancipazione voleva quindi fondarsi su un riconoscimento non solo legale, civile e morale, ma prima ancora su un dettame metafisico, su qualcosa che fosse incontestabile persino agli uomini che si fanno re o imperatori. E chi più in alto di Dio può esservi? Si può forse contestare il volere di Dio? Certo che no.

L’elezione divina di Israele è certamente parte del credo religioso ebraico e ne è uno dei cardini principali; ma è pure vero che questo principio teologico è stato oggetto di traversie non da poco in seno alla cultura del popolo “eletto“. Esserlo voleva o non voleva dire avere un qualche carattere di superiorità nei confronti di tutte le altre genti? Se di questo si fosse trattato, era evidente che il reclamare, ad esempio, la terra promessa ad Abramo da Dio non era un semplice diritto, ma un qualcosa di antropologicamente ontologico: il popolo ebraico è quella Terra promessa che, quindi, non può essere di nessun altro. Ma esponenti del mondo della cultura ebraica confutano l’ipotesi (o l’idea…) che la predestinazione data dall’elezione divina voglia significare “superiorità” in chiave discriminatoria.

La Torah non è quindi una mitizzazione del popolo ebraico, non è un assegnargli diritti che divengono privilegi e che, quindi, ne stabiliscono una sorta di “primato nazionale” su tutte le altre nazioni. Dicono gli studiosi ebraici che è esattamente l’opposto: semmai si tratta di una maggiore assunzione di doveri nei confronti di Dio (il cosiddetto “giogo“): un impegno che è la determinazione della condotta di vita di chi riconosce nel Signore la sua guida, la sua fonte di vita, il principio e la fine di tutte le cose. Gli ipernazionalisti alla Smotrich e Ben-Gvir dovrebbero quindi rifarsi, se davvero interpreti della più genuina tradizione talmudica, ad una traduzione molto più umile delle Sacre Scritture.

L’Ebraismo, non da meno del Cristianesimo o dell’Islam, si rifà all’unico Dio che punisce i peccatori e che non ammette che ci si allontani dalla “retta via“. Ma, siccome le religioni sono instrumentum regni, i nazionalismi più perversi se ne fanno portatori indefessi, così da essere identificati con l’idea che propongono di una ibridazione del pensiero tra moderna laicità e antichissimi riferimenti della mitologia biblica, se non di racconti ancora più antichi e quasi primitiveggianti. Oggi parliamo spesso di “sionismo religioso” e lo facciamo, a ragion veduta, perché ci rendiamo perfettamente conto che il carattere del sionismo è fondato sul primato della religione, della tradizione sacra del popolo ebraico.

C’è un far derivare la missione della fondazione del moderno Grande Israele, da costruire nei confini del Mandato palestinese, sforando però nelle zone del Golan sempre più in prossimità di Damasco, ad un lontano retaggio culturale e socio-civile in cui l’aspetto religioso sia primo tra i pari: il potere economico, le relazioni internazionali con l’amico americano e la creazione di un nuovo ordine mediorientale di cui lo Stato ebraico sia il principale attore e coordinatore indiscusso. Questa forma di imperialismo dai contorni teocratici non può non trovare la sua migliore espressione con la ferocia del militarismo a tutto spiano. Eppure, nonostante tutte le indistinguibilità che le banalizzazioni superficiali dei media offrono, c’è una differenza che permane tra sionismo ed ebraismo.

Non dobbiamo cadere nel tranello dell’assimilazione troppo repentina dei concetti: si finisce così per non capire fino in fondo tutto quello che avviene, anche se avviene dalla parte sbagliata, ossia quella che massacra un popolo perché non lo vuole in quella che reputa la sua Terra, con la ti maiuscola, data così da Dio ad Abramo… Quando ci riferiamo tanto al sionismo quanto all’ebraismo, così come se ci riferissimo ad altri filoni culturali, religiosi o filosofici, non lo dovremmo fare pensando ad una univocità indefessa. Le sfaccettature sono tante e vanno prese in considerazione. Il “sionismo religioso” che, per l’appunto, oggi per noi è il definire un unico aspetto della vita politica di Israele, anche dentro la Knesset, tempo fa era un clamoroso ossimoro.

La soluzione del problema ebraico, come espressa da Theodor Herzi, riguardava il ritorno di tutto il popolo sparso per il mondo in Palestina e qui si sarebbe dovuta fondare la nazione. Ma gran parte dell’ortodossia ebraica non sostenne questo proposito più antropolitico che religioso, perché riteneva che solo il ritorno del Messia avrebbe avuto come naturale conclusione il ricongiungimento nella Terra promessa. Il sionismo era stato percepito al principio come un movimento quasi antireligioso, pur ritenendosi inscindibile dall’ebraismo in quanto tale. Ma uno dei più influenti rabbini del XX Secolo, Abraham Isaac Kook, riteneva invece che la “missione divina” del sionismo fosse invece confermata.

Da cosa? Dal fatto che, proprio in Palestina, il movimento di Herzi aveva dato vita allo Yishuv, ossia un insediamento ebraico che aveva tutte le connotazioni di un embrione di ciò che poi sarebbe divenuto, dopo la tragedia dell’Olocausto, lo Stato di Israele. Fatte tutte le debite distinzioni, considerate tutte le molteplici differenziazioni createsi nel tempo in seno alla cultura ebraica, emerge ancora più evidente come, proprio nel rispetto di una “elezione divina” del popolo di Israele come prediletto per caparbietà e fedeltà ai precetti ultraterreni, gli ebrei di oggi dovrebbero biasimare duramente la politica del loro governo e condannarla come crimine di guerra, crimine contro l’umanità, offesa a Dio e alle Sacre Scritture.

Nessun presupposto teologico può venire in aiuto del cieco, omicidiario nazionalismo di Netanyahu (che pensa soprattutto a non presentarsi nei tribunali per rispondere dei presunti reati commessi…), Smotrich e Ben-Gvir: assumere su di sé il connotato della predestinazione divina per sterminare il popolo palestinese è una abiezione che rivela non una profonda ignoranza delle proprie tradizioni, bensì la voglia di strumentalizzarle per perseguire i propri scopi. Niente di più, niente di meno di un cinismo disumano che, magari non oggi, ma domani certamente la Storia metterà accanto alle più grandi tragedie olocaustiche.

MARCO SFERINI

22 luglio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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