Il nuovo ceo Navratil esordisce con la scure. E fa segnare il più grande rialzo in 17 anni
Sedicimila posti di lavoro in meno. È l’annuncio con cui Philipp Navratil, austriaco classe 1976, nuovo amministratore delegato di Nestlé Spa, ha esordito poche settimane dopo il suo insediamento (Laurent Freixe, suo predecessore, era stato licenziato dopo solo un anno per una relazione con una sua subordinata).
I tagli, pari a circa il 6% della forza lavoro globale, saranno completati entro il 2027. Appena la notizia è circolata, il titolo del colosso svizzero è balzato di oltre l’8% alla Borsa di Zurigo, il rialzo più consistente degli ultimi 17 anni (da gennaio 2022 aveva perso il 34%). È il paradosso della finanza contemporanea: licenziamenti che i mercati devono leggere come una promessa di dividendi futuri.
Nestlé, gruppo con 270mila dipendenti nel mondo e un fatturato di oltre 95 miliardi di franchi svizzeri nel 2024 (circa 100 miliardi di euro), ha chiuso i primi nove mesi del 2025 con vendite per 65,9 miliardi di franchi, in calo dell’1,9% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. A pesare sono stati l’aumento dei costi delle materie prime, l’inflazione e il rallentamento dei consumi in Europa.
Nondimeno, la multinazionale resta in utile: 9,4 miliardi di franchi di profitti netti nel 2024, una cifra che non giustificherebbe, almeno in apparenza, una riduzione così drastica dell’occupazione. Come i numeri del terzo trimestre di quest’anno: aumento delle vendite nell’ordine del 4,3%. Ma per gli azionisti non basta.
L’obiettivo del nuovo Ceo è ottenere «risparmi strutturali» per 3 miliardi di franchi, tagliando soprattutto nelle funzioni amministrative e nei mercati maturi, dove la crescita è più lenta e i margini si assottigliano. «Il mondo cambia e Nestlé deve cambiare più in fretta», ha detto Navratil, promettendo di essere «spietato» nella valutazione delle risorse umane.
E l’Italia? Nestlé conta nel nostro Paese circa 4600 addetti distribuiti in 10 siti produttivi, logistici e direzionali, con marchi molto noti come Sanpellegrino, Levissima, Mio, Buitoni, e naturalmente Perugina. Proprio lo stabilimento di San Sisto, a Perugia, è diventato negli anni un simbolo della ristrutturazione dell’industria alimentare nazionale. Nel 2018, dopo una lunga vertenza, l’azienda dichiarò 364 esuberi, gestiti con accordi di esodo incentivato, prepensionamenti e ricollocazioni, ma non senza traumi sociali
Oggi, con il nuovo piano globale, il timore è che si riapra la ferita. Lo stabilimento umbro, che impiega circa 800 lavoratori e produce circa 40mila tonnellate di cioccolato all’anno, è stato trasformato in un hub europeo per i Baci e le tavolette (nel 2022 e nel 2023 sono stati investiti rispettivamente 7,5 e 6,5 milioni di euro), ma la concorrenza interna al gruppo resta forte. C’è da guardarsi non solo dai marchi esterni ma dalle stesse divisioni interne, insomma. Oltre che dai nuovi piani del capitale.
In Svizzera, nel frattempo, gli analisti di Credit Suisse e Ubs hanno rivisto al rialzo il prezzo del titolo Nestlé, lodando la «determinazione nel contenere i costi» del nuovo management. Applausi anche da parte della società di servizi finanziari con sede a New York City Jefferies: «La maggior trasparenza sui risparmi di costo sono ben accolti». Stessi toni da parte della banca britannica Barclays, che parla di «un buon debutto per Nestlé e per il nuovo Ceo».
Nel lessico del management, queste operazioni si chiamano «razionalizzazioni», «piani di efficienza», «semplificazioni organizzative». Nella sostanza, si tratta di una redistribuzione al contrario: meno salari, meno stabilità, più dividendi. È la «finanziarizzazione del profitto», che trasforma ogni scelta industriale in un messaggio ai mercati. L’economista David Harvey ha parlato di «accumulazione per espropriazione»: la ricchezza si costruisce non solo producendo, ma espellendo, disfacendo, riducendo. Non è più solo il lavoro vivo a generare valore, ma anche il suo contrario, ovvero la sua soppressione.
La vicenda Nestlé, in ogni caso, è solo un tassello di un mosaico più grande: quello di un capitalismo che, in assenza di crescita reale, si alimenta di tagli e di bolle finanziarie. Un capitalismo che misura il successo di un’impresa non in base a quanti prodotti vende o a quanti salari distribuisce, ma a quanto valore genera per gli azionisti nel breve periodo. Un meccanismo perverso, che distrugge comunità, competenze e sicurezza sociale. Se il titolo vola in Borsa, il prezzo lo pagano i lavoratori. È questa la legge non scritta del neo-capitalismo.
Ecco perché ogni volta che un piano industriale promette «efficienza» e «snellimento», bisognerebbe chiedersi: efficienza per chi? Snellimento di cosa? Perché dietro l’euforia dei mercati c’è spesso una cassa integrazione che si apre, una famiglia che perde reddito, un territorio che perde economia.
LUIGI PANDOLFI
foto: screenshot ed elaborazione propria







