Gianni Vattimo, dentro il coraggio di una innovazione

Dai libri alle candidature politiche. Addio al filosofo torinese. Con Pier Aldo Rovatti, introduce il concetto di «pensiero debole» che, nel 1983, diventa un libro. Se il suo maestro Luigi Pareyson aveva importato e sviluppato in modo profondo e originale l’esistenzialismo di Jaspers, lui «traduce» in Italia Heidegger. Quella parte degli anni Ottanta caratterizzata da una temperie postmodernista vede nell’autore, insieme a Lyotard e Rorty, le punte più significative
Gianni Vattimo

Gianni Vattimo non si può ridurre alla fortunata, ma anche vituperata formula del «pensiero debole». Nel suo percorso c’è molto altro di interessante. Dal punto di vista biografico, si può dire che Vattimo ha vissuto un’esistenza «esposta», tutto il contrario di quella appartata che di solito si attribuisce al filosofo tradizionale.

La sua vita pubblica comincia quando negli anni Settanta si candida alle elezioni nelle liste del Fuori, il movimento di liberazione omosessuale. Continua con le diverse e anche spregiudicate candidature politiche (tra l’altro anche con Di Pietro e con i comunisti di Rizzo) e finisce nelle pagine di cronaca con il processo che ha visto imputato il suo segretario e compagno per «circonvenzione di incapace». Tutto si può dire, tranne che sia stata una vita conformista.

Ma anche in filosofia, Vattimo porta il coraggio dell’innovazione. Nato nel 1936, appartiene (come un altro grande del secondo Novecento, Remo Bodei, che era del ’38) a una generazione filosofica che non ha vissuto le esperienze della guerra e dell’antifascismo, e che si muove su un terreno più aperto e libero. Come molti altri filosofi italiani però (anzi, come quasi tutti) Vattimo costruisce la sua personalità intellettuale attingendo a esperienze filosofiche d’oltralpe.

Se il suo maestro Luigi Pareyson aveva importato e sviluppato in modo profondo e originale l’esistenzialismo di Jaspers, Vattimo «traduce» in Italia un pensiero destinato a segnare i decenni successivi: quello del cosiddetto secondo Heidegger, dello Heidegger che non si concentra più sull’esistenza dell’individuo e che si volge verso l’Essere: a questi temi è dedicato il primo importante libro di Vattimo (Essere, storia e linguaggio in Heidegger, del 1963).

Ma il filosofo che così si avvia a una brillante carriera (e che si lascia alle spalle la parentesi in Rai, dove era stato collega di Umberto Eco e di Furio Colombo) non può non farsi coinvolgere dal ’68 torinese, quello degli studenti di Palazzo Campana e degli operai Fiat. Dopo un iniziale disagio, perché è già professore incaricato e sta dall’altra parte della barricata, Vattimo, che si era formato politicamente nell’Azione Cattolica, si mette in sintonia con i conflitti presenti cercando di proporne anche una chiave di lettura filosofica.

Il pensiero dell’emancipazione, però, non passa più soltanto per Marx, ma anche e soprattutto per Nietzsche: nel 1974, Umberto Eco gli fa pubblicare per Bompiani il grande testo nietzscheano (Il soggetto e la maschera), il cui sottotitolo significativamente recita: «Nietzsche e il problema della liberazione». Sono gli anni in cui l’esigenza di una liberazione non solo politica, ma soprattutto esistenziale, attraversa i movimenti radicali, da Lotta continua al Settantasette.

Vattimo li precorre, nel suo libro, proponendo un modo diverso di pensare i percorsi dell’emancipazione: un modo che non esorcizza i temi del corpo, del desiderio, della sessualità vissuta senza censure, ma anzi li pone al centro, utilizzando come strumento di comprensione un pensiero, come quello di Nietzsche, che la cultura di sinistra fino a quel momento aveva tenuto prudentemente a distanza.

Guardando retrospettivamente al lavoro degli anni Settanta, Vattimo ha avuto occasione di ricordare, in più di una intervista, che il suo intento era, per così dire, quello di scrivere la filosofia del manifesto, cioè di un modo innovativo e diverso di fare politica. Anche se, aggiungeva, al manifesto nessuno se n’era accorto.

La svolta verso il pensiero debole matura negli Ottanta. A motivarla, come ha raccontato lo stesso Vattimo, c’è anche la delusione politica: il disfacimento delle nuove sinistre, le derive verso la lotta armata, il nuovo spirito dogmatico che le accompagna. Alla ricerca di una nuova idea di liberazione subentra quindi, in buona sostanza, il disincanto rispetto al «grande racconto» dell’emancipazione.

La Crisi della ragione, dichiarata in un fortunato volume einaudiano curato nel 1979 da Aldo Gargani, prelude al Pensiero debole, un’antologia dal titolo azzeccato, destinata a non passare inosservata, che Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo pubblicano nel 1983 con Feltrinelli. Nel frattempo era uscito anche La condizione postmoderna, un testo influente quanto pochi che Jean Francois Lyotard aveva dato alle stampe nel 1979. Gli anni Ottanta, ma purtroppo anche i seguenti, sono dunque caratterizzati da una koiné postmodernista di cui Vattimo, Lyotard e Rorty sono a mio avviso le punte più significative.

Le parole d’ordine condivise sono la critica della ragione fondativa, la fine delle «grandi narrazioni», la tesi che non c’è una realtà, ma solo interpretazioni, lo scetticismo sui progetti politici troppo ambiziosi, l’elogio sempre e comunque delle «differenze», la critica di ogni idea che appaia come universalistica o totalizzante. Rispetto a questa litania, che sicuramente aveva le sue brave motivazioni, ma che ha fatto anche tanti danni, Vattimo si distingue comunque per la finezza intellettuale che, nei suoi scritti, caratterizza la presentazione delle tesi postmoderne.

La tesi ermeneutica secondo la quale non c’è rapporto col mondo che non sia filtrato dalle tradizioni culturali e dai linguaggi storici, è in Vattimo solidamente radicata negli ampi studi che egli ha dedicato a questo tema, dal libro su Schleiermarcher filosofo dell’interpretazione (Mursia 1968) al confronto decisivo con il Gadamer di Verità e metodo e con la sua «urbanizzazione» dell’heideggerismo.

Ma nel pensiero debole declinato alla maniera di Vattimo c’è anche un elemento teorico di matrice propriamente heideggeriana che segna la specificità dell’approccio che caratterizza il filosofo torinese. Per Vattimo, lo dico con le parole di una sua intervista (ma anche i suoi scritti sono sempre molto nitidi, nonostante la complessità delle questioni teoriche) «pensiero debole non è solo l’apologia di una ragione non universalistica, non argomentativa. È anche la teoria di un filo conduttore ontologico di indebolimento».

In parole semplici, la tesi che Vattimo sostiene è che non siamo solo noi a pensare in modo diverso, ma questo indebolirsi è un aspetto della realtà stessa, dell’essere stesso (in una qualche sintonia con il Dio cristiano che si indebolisce fino al punto di farsi uomo). Ma qui, paradossalmente, il pensiero debole trapassa in pura speculazione filosofica.

Il volgere del millennio, però, è segnato dal declino del postmodernismo e, per Vattimo, non solo dall’esperienza politica nel Parlamento europeo, ma anche da una rinnovata radicalità, che lascia la sua traccia soprattutto in due libri. Il titolo del primo fa il verso a Nietzsche: Ecce Comu. Come si ri-diventa ciò che si era (Fazi 2007). Il secondo, scritto con Santiago Zabala, è un vero e proprio manifesto: Comunismo ermeneutico (Garzanti 2014).

Si tratta quasi di un testamento filosofico e politico, dove il pensiero debole si trasforma in un pensiero dei deboli, e dove la critica del capitalismo neoliberista a egemonia Usa si salda con lo sguardo verso i processi di emancipazione (complicati e contraddittori, aggiungiamo noi) di alcuni Paesi dell’America Latina. Un pensiero «esposto» e arrischiato, come lo era la personalità di Gianni Vattimo.

STEFANO PETRUCCIANI

da il manifesto.it

foto: screenshot tv

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Filosofiala terza pagina

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