Gara delle élite politiche a sostegno dello slancio bellico

Nel dicembre 2022 Angela Merkel rilasciava un’intervista al “Die Zeit” in cui esplicitava con grande nettezza, senza alcun giro di parole nel cosiddetto “politichese“, che sulla mutazione dell’Ucraina da...

Nel dicembre 2022 Angela Merkel rilasciava un’intervista al “Die Zeit” in cui esplicitava con grande nettezza, senza alcun giro di parole nel cosiddetto “politichese“, che sulla mutazione dell’Ucraina da granaio europeo a una sorta di intercapedine bene armata tra territorio NATO e Russia l’Europa ci aveva riflettuto, pensato a fondo e poi ne aveva tratto le conseguenze fino, almeno, dal 2014.

L’asse franco-tedesco di allora aveva controfirmato gli accordi di Minsk non tanto per mettere sul tappeto della diplomazia internazionale una sorta di pace duratura con Mosca, quanto per dare più tempo proprio all’Alleanza atlantica per rifornire di armamenti sempre più complessi e pesanti il governo di Kiev. Un riarmo adeguato, ragionato in termini di contenimento dell’espansionismo russo quanto di ampliamento dei confini della NATO che, infatti, andavano sempre più procedendo verso est.

Quegli accordi, come è noto, vennero ben presto accantonati perché interessavano veramente molto poco alle parti in causa. Il tentativo europeo di siglare un patto vicendevole non era realmente quello che l’Europa stessa voleva e, nello specifico, quello che Parigi e Berlino intendevano realizzare di lì a breve termine. L’inganno era dietro l’angolo di una finta politica di pace, di una altrettanto ben costruita scenografia della volontà di realizzare i valori originari del federalismo continentale.

Lo spirito di Ventotene aleggiava sulle cattive coscienze dei governi che trainavano la UE verso un neomilitarismo di matrice nordatlantica e, quindi, ben impostato sull’asse con Washington. La previsione di fare del Donbass una regione a statuto speciale naufragò rovinosamente nella tempesta degli interessi veramente opposti e la guerra di Kiev contro gli autonomisti-indipendentisti divenne qualcosa di più di una evidenza sul campo.

Fu la premessa per una vera e propria fortificazione delle posizioni opposte e fece diventare Donetsk e Luhans’k due oblast oggettivamente di guerra. Senza più alcun discrimine. Questa premessa logica e cronologica è l’anteprima di un seguito più attuale in cui tutto si è completamente capovolto, quanto meno nella narrazione occidentale. Ciascuno dei due settori in competizione fa la sua parte propagandistica.

Ognuno ritiene di essere moralmente, culturalmente, politicamente e militarmente superiore. Ma oggi i dati ci dicono che, questa volta, cambiando l’ordine degli addendi, è cambiato anche il risultato: la guerra destabilizza al punto da sorprendere qualunque previsione. Nulla va veramente mai come viene pianificato. Tanto meno dagli strateghi nei palazzi delle rispettive cancellerie, ma nemmeno al fronte dove l’avanzata di Mosca è lenta ma progressiva.

Il “ReArm Europe” votato a maggioranza dal Parlamento europeo è un confine, un crinale, una separazione tra un ieri che già somigliava molto all’oggi e un oggi che prospetta ciò che sarà nell’immediato domani. Tradotto: le classi dirigenti del Vecchio continente vivono come una minaccia l’espansione dei BRICS, dei poli emergenti sulla scena mondiale e si preparano a fronteggiare tutto questo con una attitudine bellicista, consapevoli dell’insipienza politica.

La dedizione ultratlantica di von der Leyen è in realtà il fallimento dell’ordoliberismo nella stretta attualità di una crisi economica e finanziaria che si è inverata ancora di più nella torsione dell’economia di guerra: conflitti che sono la prosecuzione degli atti di governi che sono oggettivamente impossibilitati a creare una politica internazionale che sia capace di contendere la scena tanto alla Russia quanto alla Cina da un lato, così come ai nuovi Stati Uniti d’America dall’altro.

Fino a quando l’amministrazione a stelle e strisce era in mano alla compiacente parte democratica, il capitalismo nordamericano ed europeo era certo di poter superare la limitazione impostagli dalla guerra in Ucraina con una sorta di vittoria sul lungo termine. Poi la tenuta del fronte si è stabilizzata, il conflitto è divenuto una prospettiva non più di breve o media durata, ma ha minacciato la stabilità americana oltre ogni possibile tenuta sul piano tanto militare quanto economico.

Così, siccome la contesa mondiale esige un confronto costante con l’aumento della potenza cinese, la partita è diventata squilibrata e il ricorso al trumpismo è stato l’ultimo approdo di una disperazione delle élite di Washington unitamente a quelle che vengono, non impropriamente, definite le “tecnocrazie della Silicon valley” per gestire una nuova fase di crisi globale. La prospettiva della fine della guerra in Ucraina non offre soltanto all’America e a Trump la possibilità di un nuovo regolamento di conti con Pechino a pari altezza di tiro economico.

La prospettiva della fine della guerra permette anche all’Europa freneticamente bellica di lasciar sognare i signori della certa ricostruzione dopo la fine dei combattimenti. Non sarà certamente sufficiente la ipotizzata tregua di trenta giorni annunciata come offerta trumpiano-zelenskijana a Putin, ma si iniziano ad intravedere gli spiragli affinché l’economia di guerra comprenda anche tutto il lucroso affare della rimessa in moto di un paese, l’Ucraina, sull’orlo del fallimento più completo.

Per questo von der Leyen risponde, unitamente a tutta la sua commissione, con un riarmo necessario su un piano difensivo che, in realtà, prepara l’Europa ad uno stato di guerra permanente in uno stato di liberismo che fa credere all’Occidente di essere il migliore mondo possibile per attitudine democratica, per ispirazione liberale, per senso etico superiore, per civiltà quindi. In realtà, proprio questa marcata superiorità nei confronti del resto del pianeta ci porta ancora una volta ad un espansionismo che nega proprio le ragioni fondanti dell’Europa immaginata a Ventotene.

L’Unione Europea di Ursula von der Leyen, sinceramente, non è la nostra Unione… Almeno questo sarà permesso affermarlo senza dover per forza cadere nella trappola retorica del “o con me o contro di me” o nell’altra trappola, quella della facilissima accusa di “filoputinismo“. I soloni della sinistra moderata e liberale vorrebbero farci credere che in questa Europa si vive meglio che altrove e che, per questo, non c’è altra parte del mondo in cui si può vantare un grado di libertà pari a quello che si registra nel Vecchio continente.

Non si vive bene nell’Unione Europea. Vivono bene solamente coloro che hanno un reddito garantito da rendite economiche derivanti dallo sfruttamento della mano d’opera e della forza lavoro precarissima Sono decine di milioni le persone che sopravvivono e che non sanno nemmeno lontanamente cosa significhi “vivere” con un minimo livello di decenza. La scelta del riarmo va ad aumentare la pletora di coloro che già hanno meno e sempre minori garanzie sociali.

O il riarmo o lo stato-sociale, non ci sono alternative. Se si sceglie il primo si fa, oggettivamente, fatica a sostenere il secondo. E non solo per una questione di dicotomia quasi ideologica. Scegliere il disarmo non è pavidità, non è nemmeno essere passivi davanti al pericolo russo… Era l’obiezione che ponevano a Ghandi: la resistenza che definivano “passiva” e che, invece, era attiva, eccome se lo era; perché provocava delle reazioni, anche sanguinose, che dovevano cedere però davanti alla non collaborazione.

Non si può essere costretti a non scegliere una via quarta, rispetto a quella del trumpismo, dell’atlantismo e del putinismo. Questa quarta opzione è l’integrazione europea su basi sociali e non militari. Dobbiamo rivendicare questo diritto di “diserzione” rispetto tanto alle vulgate comuni, quanto a quelle complottiste. Un diritto al realismo che non sono le armi, ma una nuova sinistra di pace, che sa dire di NO ad un finto pragmatismo da realpolitik che, alla fine della fiera, è utile soltanto a coloro che mandano gli altri a scannarsi, che li fanno impoverire e che se la godono alle spalle della povera gente.

Mentre, col voto favorevole di buona parte della maggioranza di governo e del PD, passa a Strasburgo il piano di riarmo a tutto spiano, in Italia Crosetto prepara un nuovo esercito italiano pronto, naturalmente, alla “difesa” del Paese in caso di guerra. Si parla di quarantamila miliari effettivi da assumere, quindi non riservisti e dell’invio delle nostre truppe sulla linea del fronte russo-ucraino come forze di interposizione dell’ONU. Le nostre forze armate al momento contano di circa centosessantamila unità tra Marina, Esercito ed Aeronautica. Si contano poi circa centomila carabinieri.

Si arriverebbe quindi ad una cifra totale di circa trecentomila effettivi. Crosetto nega con un tweet. Tutte fantasie giornalistiche, ma ammette che al Ministero della Difesa si stia lavorando in questo senso. In perfetta sintonia con le richieste dell’Alleanza atlantica e con il piano di riarmo dell’Unione Europea. Il tutto nel nome della difesa giusta contro una guerra ingiusta. Quindi la divisione tra buoni e cattivi rimane. Fatto salvo che Trump si pone un po’ nel mezzo: come arbitro da un lato e come fomentatore di tensioni con la UE dall’altro.

Siccome è difficile pensare che possa esistere una guerra completamente giusta, anche la politica ha qualche ritrosia a sposare poi a tutto tondo un piano di riarmo che è sfacciatamente abnorme in quanto a costi (ottocento miliardi di euro) e che ricadrà sulle già precarie economie dei singoli Stati. Dal voto di Straburgo non ne esce bene il PD di Elly Schlein ma nemmeno poi tanto la maggioranza meloniana: Fratelli d’Italia tenta il rinvio del pacchetto pro-Kiev (e fallisce l’obiettivo); la Lega vota contro e Forza Italia a favore.

La compagine di governo quindi si divide in due: sì dei meloniani e dei forzitalioti, no del partito di Salvini. Poi cosa accade, come se non ne succedessero già abbastanza? Calenda si inventa una norma, da concordare con la destra, per cui se – un po’ sul modello rumeno – vincono le elezioni forze politiche magari pacifiste e tacciate di “filoputinismo” dai sostenitori del riarmo a tutto spiano, si può indagare sull’esito del voto, sul fatto se sia o meno legittimo.

Le sue parole: «L’Italia deve dotarsi di uno scudo democratico in modo che l’eventualità di una elezione non democratica venga evitata in tutti modi. Il provvedimento che presentiamo oggi prevede due parti: come accorgersi se ci sono interferenze e da dove arrivano e poi cosa fare. Su questa norma c’è un’interlocuzione aperta con il governo, l’abbiamo già mandata al sottosegretario Mantovano e aspettiamo di discuterne insieme, verrà mandata oggi a tutte le forze di opposizione perché disciplinare la difesa del sistema democratico è una cosa che va fatta tutti insieme».

Tutto nel nome della difesa della democrazia: ci si riarma per la pace, si tenta l’aggiramento della volontà popolare se l’esito del voto non è quello che si attendono coloro che pretendono una politica di governo compiacente con lo stato di cose esistente, con l’economia di guerra, con la fedeltà assoluta alla NATO e a quel che rimane di occidentalismo spacciato per grande lume moderno di saggezza e di eticità superiore. Sono i liberali a minare le fondamenta democratiche. Non i pacifisti. Non è abbastanza evidente?

Siamo in pieno psicodramma: tutti coloro che vogliono far piacere alle alte sfere del potere economico e finanziario si dimenano nel mostrarsi più servizievoli di altri e più che mai. Ma non c’è storia che tenga, non c’è critica che valga per chi detiene la metà delle testate nucleari al mondo. Insieme alla Russia, poi, la percentuale sale al 90% (circa 12.500 bombe atomiche…). La guerra bussa con prepotenza alle porte di una società intimorita, spaventata, lacera e contusa dalle tante promesse e dalle altrettante disattese politiche di incremento dei diritti sociali.

Non si tratta di fare del catastrofismo, ma di avere ben chiaro che tutte le belle parole sulla pace che sentiamo da destra e da sinistra, per non parlare del centro…, sono chiaramente fuffa esibita a pieni polmoni con grandi discorsi che parlano di difesa, di amore per la democrazia e che stanno uccidendo tutto questo prima ancora che ci si trovi innanzi alle condizioni di doversi davvero difendere.

Non se lo vuole sentire dire praticamente quasi nessuno, ma questo è il capitalismo, il liberismo a tutto spiano: è conflitto continuo per il dominio economico-finanziario del pianeta o di vaste aree dello stesso. Questa contesa oggi viene affrontata sui mercati delle armi e delle ricostruzioni: per nuove colonizzazioni ad est, ma non di meno nel Pacifico. Area di interesse in cui Trump vuole mettere le mani. Così come su zone nevralgicamente strategiche per passaggi commerciali e per dinamiche militari come Panama, Canada e Groenlandia.

Non sono boutade enfatiche e bullismi parolai di un folle. Sono invece lucide previsioni di conquiste neoimperialiste…

MARCO SFERINI

13 marzo 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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