L’impressione piuttosto comune secondo cui la Natura includa una sorta di ordine, con proprie leggi morali oltre che materiali, fisiche e relative alle trasformazioni della materia, non è certamente una intuizione moderna, anche se si è portati a pensarlo visto che da una philosophia naturalis si è passati, o per lo meno, ci si è accostati ad una scienza della Natura stessa.
In realtà l’appena citata “filosofia della Natura” è un misto di studio tanto fisico quanto metafisico dei fenomeni che ci circondano e di cui facciamo intrinsecamente parte. Ma questa impostazione, per lo più, vale per il terzo periodo di una storia del “giusnaturalismo” che, se vogliamo dirla piuttosto elementarmente (ma tutt’altro che banalmente), sta alla filosofia come il diritto positivo sta all’idea istituzionale che si ha del moderno “contract social“.
Una legge naturale ontologica va distinta da una legge morale naturale: la prima è, in quanto tale, più facilmente comprensibile come fenomeno insito nell’essenza stessa della materia che si comporta secondo rapporti di cause ed effetti mutevoli con il mutare stesso delle qualità atomiche e subatomiche delle particelle che la compongono. Altro discorso merita il perché ciò avvenga: possiamo solo prenderne atto.
Circa in un mese, da un nocciolo di pesco nasce una pianta che poi diverrà, nel tempo, un albero che darà i suoi frutti. In quel piccolo pezzetto di materia organica c’è già tutto: c’è, per così dire, l’idea del pesco stesso. Il fatto che, una volta posto in terra, interagendo con gli altri elementi naturali (terra, acqua, sole, aria), il risultato finale (se così lo si può definire) sarà il frutto-pesca. Causa ed effetto: semina del nocciolo (o sua spontanea presenza in un terreno) e poi il resto.
Appunto siamo qui in presenza di una “legge della Natura“, da noi esseri autocoscienti e coscienti dell’Universo, chiamata “germogliazione“. Sappiamo, dunque, che nulla potrà impedire al pesco di essere tale se le condizioni date saranno sempre uguali o simili. Quindi il comportamento della Natura è lineare quando esistono delle premesse che non sono date dall’essere umano, ma dal contesto in cui si verificano.
La terzietà qui semmai riguarda appunto i motivi, che restano incomprensibili perché sono inconoscibili, per cui dato X si produce Y e poi magari anche Z. Gli scienziati parlano di “cicli biogeochimici“, quindi di processi naturali che seguono un loro percorso preciso e che, quindi, se vogliamo tradurre filosoficamente il tutto sono interessati da una sorta di meccanicismo che parrebbe insito nella materia o, quanto meno, nel rapporto tra le differenti, molteplici forme e stati che assume.
Molto differente è invece il comportamento degli esseri senzienti e più o meno coscienti e autocoscienti: in presenza di una uguale situazione, ad esempio un pericolo, non è affatto detto che un animale non umano o uno umano (quale noi siamo) prende sempre la stessa decisione, quindi si disponga in un senso piuttosto che in un altro. L’elemento della percezione sensibile e della sua valutazione intellettiva, affidata quindi all’istinto o alla coscienza (o ad entrambi nel nostro caso), consente appunto di scegliere e non di agire esclusivamente secondo un dettame predeterminato e prettamente fisico.
Se andiamo indietro nel tempo della Storia dell’umanità, troviamo già in Tucidide una definizione, o per meglio dire una interpretazione, di questa capacità propria del regno animale e dell’animalità nel suo complesso: una “legge di Natura” caratterizza uniformemente l’essere umano che però è anche influenzato dal potere, dal “comando“, dunque da una disposizione esterna che ne dirige le azioni e che lo indirizza prescindendo dalla sua volontà, dal suo desiderio, dal suo piacere, così come dal suo interesse anche materiale.
Solitamente – scrive Tucidide – questi comandi devono (mettiamo pure il condizionale “dovrebbero“…) fare in modo che gli uomini adempiano alle funzioni fondamentali, utili prima di tutto al bene comune, all’interesse collettivo e sociale. Se per questo scopo è necessari la forza, ebbene – chiosa sempre il grande storico ellenico – la si deve usare. Un machiavellismo dei tempi antichi, ma i paragoni sono sempre impropri quando i salti cronologici sono così ampi e rischiano inevitabilmente di essere molto poco logici.
La legge naturale qui viene a coincidere con la legge politica: per cui una buona amministrazione delle città e degli Stati è tale se e solo se soddisfa i criteri di un giusnaturalismo d’antan, ante litteram ovviamente rispetto a quello più vicino ai nostri secoli, per così dire, “moderni“. Quello di Tucidide un utilitarismo che invece non ritroviamo in Platone: se un ordine naturale esiste, questo, tradotto nei minimi termini della convivenza umana, entro la grandezza cosmica, questo risponde ad un criterio di “giustizia” che però ha il suo progenitore in un elemento trascendente (vogliamo dire “divino“?).
La diatriba sulla vera interpretazione della legge naturale non si è mai veramente fermata. Anche perché ha riguardato i rapporti diretti tra mondo e società, tra il resto dell’esistente e l’umanità che si è tirata fuori dall’animalità e si è fatta quindi essenza antropocentrica, imprescindibilità di sé medesima. La legge naturale oggi non è più, nel sistema capitalistico pseudo-avanzato, ma senza ombra di dubbio molto più accelerato nel suo onnivorismo profittuale, una considerazione dell’essere umano sull’ordine ecosistemico e cosmologico.
Semmai è una interpretazione tanto antropizzata da parte nostra da essere la legge della “nostra natura” e non più della Natura in quanto grande madre (e matrigna leopardiana) che ci comprende e include. Cosicché è sempre opportuno distinguere tra un ordine insito nelle cose esistenti, nella materia, di cui anche noi siamo parte, e quindi di un approccio fenomenologico con il comportamento dell’essere che è proprio dell’essere stesso (in senso parmenideo) e una serie di rapporti tra le specie viventi e senzienti che si vengono a creare nell’interazione reciproca e che, comunque, si risolvono sempre a favore dell’animale umano.
Hobbes sostiene che una legge naturale è un precetto che quasi impone all’uomo di preservarsi, costi quel che costi. Se l’autoconservazione della specie può essere fatto rientrare non nelle scelte coscienti ma nell’istintività, come parte e caratteristica della più complessivo regno dell’animalità, allora in un certo qual modo anche la natura ontologica non solo della legge ma del “diritto naturale” viene, seppure per vie un po’ traverse e non completamente logicamente lineari, ipotizzata e, un po’ presuntuosamente, magari anche dimostrata.
Tornando però alle peculiarità dei fenomeni e all’indagine sul loro riprodursi in modo uguale o simile, il punto è più che altro quello di una conoscibilità dei meccanismi.
O, per meglio dire, di ciò che induce i meccanismi ad essere tali e, quindi, provare a farsi un’idea del perché la materia segua determinate vie di trasformazione continua. L’affascinante illazione è che vi sia dietro tutto questo una sorta di intelligenza superiore dell’Universo: la si chiami come meglio crede o come più piace. Caso, Dio, Essere: sta di fatto che ogni elemento materiale ha come una via tracciata nella sua essenza, nella sua esistenza anche se incosciente e inconsapevole di essere un “qualcosa“.
La meccanica atomica ci dice che quello che vediamo e che crediamo si comporti in un certo modo perché composto in un modo che noi crediamo certo, invece nell’infinitesimamente piccolo si “muove” in tutt’altra maniera. Facciamo l’esempio di sir Isaac Newton: lo scienziato inglese pensava che la luce fosse come composta da piccole particelle. Non aveva tutti i torti, ma la scienza moderna ci ha spiegato che la luce si propaga per movimenti ondulatori e, date queste scoperte, oggi possiamo affermare che Newton aveva avuto una intuizione non completamente errata, ma nemmeno completamente giusta.
Le esperienze che noi abbiamo circa le cosiddette “leggi della Natura” si rifanno, come è ovvio, all’osservabile, alla percezione sensoriale che, rispetto alla meccanica quantistica, è piuttosto una constatazione superficiale (letteralmente detta e scritta). Le particelle atomiche e subatomiche, quindi l’invisibile agli occhi è, per davvero, l’essenziale – per citare senza fargli torto Saint-Exupéry – che sfugge alla nostra comprensione perché si tratta di un regno della trasformazione materiale che ci sembra non seguire i cardini cui siamo abituati.
Tra la meccanica classica e quella quantistica vi sono differenze enormi e, talvolta, sembra quasi che ciò che viene spiegato sia, proprio per questo, non spiegabile ulteriormente. Più ci si addentra nel micromondo quantistico più ci si rende conto che la fisica quantistica stessa deve rinunciare all’aspirazione di essere in grado di prevedere quello che accadrà. Il movimento delle particelle subatomiche è imprevedibile e pare sfuggire a tutte quelle ordinate leggi naturali di cui fino a qui abbiamo scritto. La domanda ulteriore è: si potrà prevedere il comportamento, ad esempio, degli elettroni?
Oppure è impossibile qualunque tipo di previsione che, pertanto, conduca alla formulazione da parte nostra, di nuove “leggi di Natura“? Attualmente la risposta viaggia tra le estremità dell’inconoscibilità e della negazione. Ecco che la Natura diventa inconoscibile proprio perché non è più prevedibile. Se piantiamo l’osso di una pesca sappiamo che quasi certamente ne nascerà una piantina e poi un bell’albero che ci darà tanti frutti. Anche in questo caso vi sono delle probabilità: di avere una pianta robusta e forte oppure esile e mingherlina. Di poter ottenere tante pesce o, invece, accontentarsi di poche.
Non tutti gli alberi – dice l’antico adagio – possono dare gli stessi frutti… Ma, comunque, noi siamo consapevoli del fatto che per avere il pesco si parte dal seme prelevato dalla pesca maturata e commestibile. Con l’immensamente piccolo tutto cambia e muta. Così come le leggi che noi pensavamo regolassero la dimensionalità dell’esistente sono state stravolte dalla relatività einsteiniana. Tempo e spazio sono relativi alla velocità dell’osservatore e alla presenza delle masse. Piuttosto disarmante il tutto se si pretende di avere sempre e comunque delle certezze, se ci si sente, con l’esame quantistico, un po’ spersi, spaesati e senza punti di riferimento.
Pare di essere orfani di una completa razionalità dell’esistente. Se la Natura è, nell'”infinitamente piccolo“, inspiegabile, allora anche noi non abbiamo una spiegazione per il nostro essere, per il nostro esserci, per il nostro comportamento qui ed ora. Noi siamo più eccentrici di un elettrone o di un neutrone. Noi siamo contraddittori assai più dell’imprevedibilità degli atomi e delle particelle che li compongono: forse i protoni sono più coerenti dell’altezzosa superiorità umana tra gli esseri presenti nell’Universo, di tutta la materia chiara od oscura che sia.
Visto come ci siamo comportati in qualche migliaio di anni di evoluzione (dis)umana, c’è da giurarci, c’è da scommetterci…
MARCO SFERINI
22 giugno 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria