È il momento del verdetto per l’ex Ilva: più si fanno prossime le date di scadenza, più crescono le incertezze. Il 28 febbraio finirà la cassa integrazione straordinaria (cigs) per i lavoratori di Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria (e a Roma ci sarà un nuovo tavolo di trattative col governo). A fronte dell’accordo sulla cigs dello scorso 26 luglio, allo stato attuale, il numero massimo di lavoratori in cassa integrazione avrebbe dovuto essere pari a 1.620 unità. Invece, la proroga di un anno richiesta dai commissari coinvolgerebbe 3.420 lavoratrici e lavoratori a rotazione (di cui 2.955 solo a Taranto).
E poi c’è l’acquisizione degli stabilimenti: sarà una corsa a due tra Baku Steel Company Cjsc con Azerbaijan Investment Company Ojsc, e l’indiana Jindal Steel International. L’offerta più importante dovrebbe essere quella di un miliardo di euro presentata dagli azeri, cifra lontana dagli 1,8 miliardi offerti da ArcelorMittal nel 2018 ma che comunque, vista la disponibilità di gas (decisivo nell’ipotetica transizione dagli altiforni ai forni elettrici per la decarbonizzazione), li vede in vantaggio. Finora fermamente contrario all’ipotesi di partecipazione pubblica nell’Ilva che sarà, il ministro delle Imprese Adolfo Urso per la prima volta ha aperto a questa possibilità.
Di certo, per l’intero gruppo ex Ilva, c’è un’autorizzazione integrata ambientale scaduta (Aia) da agosto 2023. Per il suo rinnovo e riesame, l’esecutivo ha approvato un decreto legge che modifica la disciplina dei criteri relativi al rilascio del rapporto di valutazione del danno sanitario: la valutazione preventiva, quella di impatto sanitario, sarà fatta dalla stessa azienda. «È un decreto tattico per dimostrare alla Corte di Giustizia Ue che il governo italiano agisce sul piano della tutela della salute, affidandola all’azienda stessa» ha commentato Alessandro Marescotti, tra i fondatori di PeaceLink.
Altrettanto certo è che i 400 milioni provenienti dalla confisca Riva, precedentemente destinati alla tutela ambientale e alla bonifica delle aree contaminate, siano stati dirottati per sostenere la produzione «perché il rischio di chiusura dello stabilimento, conseguente all’insufficienza delle risorse necessarie alla gestione commissariale, è più rilevante rispetto al punto di vista ambientale». Sul fronte giuridico, invece, dopo l’annullamento della sentenza di primo grado da parte della Corte d’assise d’appello, e il trasferimento del processo a Potenza, del procedimento «Ambiente svenduto» è rimasto poco o nulla. Con lo scorrere del tempo è scattata la prescrizione per almeno la metà degli imputati.
GIACOMO GUARINI
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