Quasi ogni anno succede che nell’arcipelago un piccolo film, documentario o di finzione, diventi il caso cinematografico dell’anno. Da una distribuzione in una manciata di cinema cioè, il passaparola e l’interesse generato sui media, trasformano un lavoro nel «film del momento».
In questi primi mesi del 2025 a seguire questa traiettoria è stato Do sureba yokatta ka (Cosa avremmo dovuto fare?), documentario uscito nel dicembre del 2024 in sole quattro sale cinematografiche e che è ancora attualmente nei cinema, ma ora in più di cento teatri con incassi che, a fine marzo, hanno superato i duecento milioni di yen (un milione e trecentomila euro circa).
Si tratta di un lungometraggio che racconta di come una famiglia, contro la sua volontà, abbia costretto la figlia malata di schizofrenia in casa senza tentare nessuna cura e addirittura segregando la ragazza. Il documentario è il risultato di più di venti anni di riprese portate avanti dal fratello della giovane, Tomoaki Fujino, regista che attraverso questo film, fin dalle primissime scene pone a se stesso e al pubblico la domanda che da il titolo al film «cosa avremmo dovuto fare?».
Perché il film è la testimonianza di un lungo e tragico errore, perpetrato dai genitori, paradossalmente due affermati medici, che ai primi segni di instabilità mentale della figia, invece di appoggiarsi all’opinione e alle cure di specialisti, hanno deciso di negare la realtà e nascondere la ragazza in casa.
I motivi di queste scelte e la rabbia da queste scaturita, sono il motivo che ha spinto Tomoaki a prendere in mano la videocamera e usarla come una sorta di ulteriore mezzo comunicativo fra lui e i genitori. La videocamera – per sua stessa conferma – gli ha permesso infatti di avere conversazioni civili con padre e madre e di approfondire la questione, conversazioni che spesso invece, quando il mezzo tecnologico non era presente, sfociava in una lite furibonda.
Il documentario cattura anche le crisi della donna e le reazioni dei genitori che ad un certo punto finiscono addirittura per mettere il lucchetto alla porta d’ingresso, e nella sua ultima parte, quando i coniugi sono ormai indeboliti e anziani, la scelta di far ricoverare la sorella. Dopo solo tre mesi, le sue condizioni migliorano enormemente e la donna, oramai più che quarantenne, riesce a vivere la sua quotidianità in maniera più pacifica con se stessa e con il mondo che la circonda.
Al di là del valore di testimonianza personale che il film rappresenta, Fujino in alcune scene accusa violentemente i genitori di aver rovinato la vita della sorella, Cosa avremmo dovuto fare? offre al pubblico giapponese l’occasione per una sorta di esperienza condivisa. Anche se la situazione è migliorata negli ultimi decenni, le malattie mentali, specialmente nelle zone più provinciali dell’arcipelago (i fatti si svolgono in Hokkaido, l’isola più settentrionale del Giappone), sono ancora considerate condizioni da nascondere e verso cui mostrare vergogna.
Come si diceva, la sorella riesce alla fine ad avere un’esistenza più serena e pacifica dopo il ricovero e la prescrizione di medicine, ma questo solo perché la madre, che morirà pochi anni prima della fine delle riprese, comincia a dare i primi segni di demenza senile. La stessa sorella riesce a godere di questo periodo solo per poco tempo, infatti anche lei si spegnerà a causa di un tumore ai polmoni pochi anni dopo la madre. E le poche e potenti immagini che ne catturano il sorriso ed il volto finalmente rilassato, non possono che aumentare il rammarico per la vita che le è stata negata.
MATTEO BOSCAROL
Foto di Gül Işık