Edonismo ed eudaimonismo: libera dialettica intorno alla felicità

Gli antichi greci avevano sintetizzato nel termine εὐδαιμονία (eudaimonia) il concetto di felicità: un buon demone socratico, quindi un’anima alla cui cura era necessario dedicare l’esistenza per raggiungere, se...

Gli antichi greci avevano sintetizzato nel termine εὐδαιμονία (eudaimonia) il concetto di felicità: un buon demone socratico, quindi un’anima alla cui cura era necessario dedicare l’esistenza per raggiungere, se non proprio l’assenza completa del dolore e delle tribolazioni, sia mentali sia fisiche, quanto meno uno stato di sufficiente tranquillità con sé stessi e col resto della società. In tempi più moderni, avremmo definito tutto questo come una ricerca della “virtù“, quindi il raggiungimento di una sorta di stato di grazia molto laico, quasi giacobinamente inteso.

Sembrerebbe che, almeno nell’antichità, si avessero le idee piuttosto chiare su cosa dovesse intendersi per “felicità” e su cosa invece non lo fosse. Ma non è sempre così semplicemente riducibile ad un solo concetto ciò che, un po’ atavicamente, riguarda i grandi problemi del vivere quotidiano così come della proiezione escatologica dell’esistenza nel suo più lungo termine, nel paragone con l’infinito privo di senso che ci circonda, che ci include e che, sovente, è motivo, se non di angoscia, quanto meno di interrogativi irrisolvibili.

Come tutti i concetti universalistici, che riguardano quindi l’interezza degli esseri senzienti, anche quello di “felicità” non è riconducibile solamente a sé stesso: non si può essere felici con la felicità, perché non è sufficiente dire di essere in quella condizione per trovarvisi veramente. Il vivere felicemente è, molto spesso, come l’amare incondizionatamente. Noi possiamo, autoconsolandoci, esprimerci in questo modo: assolutizzare per escludere qualunque tentativo di penetrazione del presentimento dell’angoscia nelle nostre esistenze, ma si tratta più che altro di un esorcismo laico, di una prova di impermeabilizzazione ai condizionamenti che sono espressi in contraddizioni dalla complessità del vivere.

La filosofia – dice Agostino – dovrebbe servire anche a questo scopo: ossia ricercare per l’essere umano e per tutti gli altri esseri viventi il miglior modo per essere quietamente felici. Il processo di acquisizione della conoscenza, recita un vecchio adagio, è la premessa per l’assimilazione non di beata tranquillità ma di inquietudine, di dolore addirittura. Tentare di sapere è certamente sbattere letteralmente la testa contro problematiche irragionevoli, che trascendono il pensiero umano, che non solo circoscrivibili entro le categorie della mente in quanto soffio vitale e prima sede dell’elucubrazione.

La psiche, il soffio vitale dell’essere pensante, non può giungere alla spiegazione dell’esistente: quindi vi sarà sempre per il filosofo, che pure per Agostino è un ricercatore del metodo, un propugnatore dello scopo dell’esistenza che si risolve nella comunione con Dio e, dunque, con la felicità massima, con l’Amore per antonomasia, un margine di inquietudine dato dal confronto con un Universo misterioso che, se non volontariamente almeno indirettamente, sbarra la strada alla soddisfazione della piena conoscenza, della risolvibilità dell’enigma degli enigmi. Dunque la felicità va ricercata altrove.

Se non altro se si pensa ad essa come ad una atarassia epicurea. Qui, nel confronto tra epicureismo, aristotelismo, platonismo e, successivamente, con la patristica, il dibattito sulla “felicità” si fa piuttosto avvincente. Vi è la tentazione un po’ accademica, nella trattazione delle singole scuole di pensiero, di mettere diametralmente su fronti opposti il concetto e l’espressione poi pratica della felicità medesima così come vengono trattate dall’epicureismo da un lato e dal plato-aristotelismo dall’altro.

Niente di più contraddittorio o, se vogliamo, di benevolmente malevolo nel descrivere una inconciliabilità tra le due comunque differenti elaborazioni del grande concetto in questione. Certo, edonismo ed eudaimonismo non vanno propriamente d’accordo, ma, ribadiamolo, Epicuro, quando afferma di poter raggiungere la felicità mediante la soddisfazione del piacere materiale non riduce il tutto all’espressione meramente fisica dei desideri, dei sentimenti, delle peregrine lotte dei nostri più ancestrali dinamismi interiori.

Così come Platone e Aristotele non fanno della “vita della mente“, della contemplazione dell’esistente (e, dunque, dell’esistenza) il solo luogo in cui è possibile tendere alla felicità in termini quasi assoluti. Sottolineiamo ancora che per gli antichi greci, padri del sapere, della voglia di conoscere e dell’amore per la verità, la vita e per ogni sua piega da spiegare, è la filosofia stessa ad essere un presupposto di soddisfazione delle tensioni emotive: lo scopo dell’acquisizione di nuove nozioni è una brama insuperabile, una premessa di felicità.

Anche Epicuro, che distingue tra “piaceri naturali e necessari” (la soddisfazione dei bisogni essenziali come mangiare, bere, dormire, vivere quotidianamente senza patimenti fisici), “piaceri naturali e non necessari” (eccedere nel mangiare, nel bere, nel dormire, nel soddisfare oltre misura le esigenze fisiche) e, infine, “piaceri non naturale e non necessari” (arricchirsi, ricercare la gloria per sé stessi, allontanarsi da una condivisione sociale, da una empatia comune), condivide con Platone e Aristotele il presupposto di una felicità che abbia la sua sede naturale nella “vita teoretica“, nella soddisfazione anche dei bisogni mentali.

La ricerca del piacere non è riconducibile esclusivamente ad una pulsione materiale, ad un bisogno unicamente fisico. Questo perché la felicità non è, di per sé, un dato biologico. Non è un organo materiale ma, nonostante ciò, risiede, come tutti gli altri nostri sentimenti e come tutte le nostre emozioni, nel nostro misterioso cervello. Oggi, naturalmente, ne sappiamo un po’ di più rispetto a duemila anni fa; tuttavia gran parte del funzionamento della mente ci è ancora oscuro. Ma, indubbiamente, oggi come ieri non possiamo non convenire con Epicuro su un fatto apparentemente elementare: la felicità è, se non altro, data dall’assenza del dolore.

Si afferma tanto più quanto meno è presente nella nostra vita il suo esatto contrario. Ma l’essere felice non consiste in un dissoluto abbandono ad un edonismo senza freni, trascurando così ogni altro aspetto dell’esistenza. Fondamentale è – come spiega molto bene Salvatore Natoli nel suo “La Felicità. Saggio di teoria degli affetti” (Feltrinelli, 2017) – quell’elemento comune ad epicureismo, platonismo ed aristotelismo che riguarda lo “sforzo umano” nel calcolo di ciò che è realmente utile al perseguimento della felicità e di ciò che, invece, è mera apparenza, soddisfazione subitanea e, quindi, effimera e inconsistente.

Essere felici non è però qui equivocabile come un processo di calcolo quasi matematico, oppure geometrico intorno a quanti, quali bisogni soddisfare: non si tratta di categorizzare sempre tutto e tutti. Semmai si tratta di valutare ciò che ci corrisponde maggiormente nel garantirci una compenetrazione tra felicità data dal piacere materiale e dalla simbiosi con la serenità espressa da una disposizione mentale passiva ma non inerte: una prontezza d’animo che non è eccitazione, ma attenzione costante, vigile sull’equilibrio stabilibile tra corpo e psiche e viceversa.

Da questa sorta di “calcolo dei piaceri“, da questa compenetrazione tra edonismo ed eudaimonismo emerge una duttilità non solo filosofica al confronto fra approcci differenti rispetto al tema della felicità come luogo interiore dell’animo e non soltanto come metafisico concetto puramente contemplativo ed esteriore; soprattutto si registra una condivisione valoriale che troppe volte è stata discriminata nel nome delle singolarità, delle presunte (e talvolta presuntuose) dicotomie tra tifoserie secolari che si sono venute a creare e che sono state supportate dagli eventi politici, sociali e culturali determinati dai contesti economici più complessi.

Con l’avvento del Cristianesimo e la predominanza del pensiero patristico si ha una vera e propria svolta epocale: è sempre Agostino l’artefice di una mutazione del punto di vista che, naturalmente, ruota attorno al rapporto stabilito tra natura umana, essenza spirituale e trasformazione della psiche nel concetto di “anima“. Qui l’alternanza è tra intellettività e sensibilità, immaterialità del pensiero e squisita materialità delle percezioni sensoriali. Il vescovo di Ippona asserisce che i sensi sono turbolenza e non possono, da soli, farci arrivare alla piena felicità.

Tuttavia, differentemente da quello che si potrebbe immaginare dopo queste considerazioni, Agostino non è un moralista, non è un esegeta interprete delle cosiddette “sacre scritture” in chiave anti-edonistica. Non c’è disputa in lui e nelle sue opere tra i due grandi filoni filosofico-morali che abbiamo fino a qui esposto. Infatti non ritiene che la felicità possa esistere a prescindere dalla “carne“: questo perché l’essere umano – che lui ovviamente intende come creatura del divino – è commistione tra invisibile interiorità e materiale esteriorità.

Il “corpo” propriamente inteso come espressione della volontà dell’anima (e quindi della psiche) viene ad avere nella filosofia e, chiaramente, nella teologia cristiana un ruolo fondamentale laddove si discute e si dibatte animatamente di sensibilità, di emozioni, di rapporto mediato tra noi e il resto del mondo. Nel fare riferimento alla stessa natura di Gesù, Agostino parla del trasfiguramento delle sembianze fisiche, quindi della glorificazione che, nella sublimazione della resurrezione, avrebbe proprio l’interezza dell’essenza di Cristo. Fatto della stessa sostanza del Padre, come recitano le preghiere cattoliche, “generato” ma non “creato“.

Ecco che proprio la resurrezione della carne, per quanto inconcepibile razionalmente, è qui la più alta esaltazione della felicità cristianamente e agostinianamente intesa. Dalla “dimensione storica” dell’uomo-Gesù alla oggettivizzazione della sua natura divina che, come Tertualliano scrive, è credibile nell’assurdità. Oltre ogni dimensione razionale, oltre ogni confine della nostra mente, oltre ogni schematizzazione. La felicità è, così, compresa in una sorta di escatologica temporalità, che va in avanti, che sfonda letteralmente il tempo per come lo concepiamo in relazione alla nostra esistenza.

Così, per il Cristianesimo la felicità non ha termine con la vita terrena, ma trascende dalla finalizzazione umana al raggiungimento della sola saggezza terrena. La grazia divina è l’obiettivo di un trascendentalismo che prende il sopravvento sulla materialità delle cose ma anche sulla concezione classica dell’eudaimonismo platonico ed aristotelico. Non c’è saggezza soltanto nell’obiettivo qui ed ora del perseguimento della virtù umana mediante una retta esistenza, tramite quella afferenza all’equilibrio raggiungibile tramite lo sforzo del bilanciamento delle emozioni.

L’obiettivo dell’uomo nuovo cristiano è la preservazione della purezza di una anima che, da invenzione tutta teologica, finisce coll’essere una concezione altra rispetto alla psiche, al soffio interiore che ci abita e che era il concetto antico di ancestralità delle emozioni, delle sensazioni, del desiderio come di qualunque altra gioia o sofferenza. L’essere umano, per essere felice, sostengono i padri della Chiesa, deve svuotarsi delle passioni e deve aprirsi a Dio per esserne come “riempito“. Agostino scrive: «Nella speranza noi siamo fatti salvi, così nella speranza noi siamo fatti felici» (“De civitate Dei“, 19).

Temporalità presente ed eternità promessa sono affidate alla fede dei singoli e di una sempre maggiore comunità di cristiani che prende il sopravvento sull’antico paganesimo. Le correnti filosofiche elleniche non faranno la fine del politeismo olimpico, ma di certo se la passeranno meno bene in quanto ad egemonia culturale, a presupposto anche sociale della grande terra natale della democrazia e del libero pensiero.

MARCO SFERINI

23 febbraio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Il portico delle idee

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