Il lavoro povero, i bassi salari, la produzione a rotoli e la programmatica incapacità di investire e fare politiche economiche sono il lato oscuro dell’outlook. In nessuna delle «panoramiche» (questo significa outlook) delle agenzie di rating statunitensi, l’ultima è stata quella di Moody’s, sarà mai detto a cosa effettivamente corrisponde il «miglioramento degli indicatori di bilancio», il «robusto mercato del lavoro» o la «resilienza economica al rischio eventi».
Quando la valutazione (rating) è positiva – quella di Moody’s è «Baa3» – significa che i mercati applaudono il fatto che la produzione industriale crolla da 26 mesi, che il mercato del lavoro in salute è fatto di lavoratori poveri, in maggioranza over 50, che hanno perso il 10% e più del loro potere d’acquisto e che il governo non ha idea di come spendere i due terzi del Pnrr a un anno dalla scadenza.
Quello che conta è che il deficit statale diminuisca, anche in previsione di 12 miliardi di tagli disposti nell’ultima legge di bilancio, e la ragionieristica politica economica rispetti le regole stabilite dal nuovo patto di austerità firmato dal governo Meloni. In mancanza di una crescita significativa, il deficit dovrà essere portato all’1,5% dall’attuale 3,4%. Un salasso.
Tutto questo ha portato il governo e la sua maggioranza a fare un carnevale. Dopo avere conservato un rigoroso silenzio davanti ai disastrosi dati del rapporto annuale dell’Istat, ieri hanno applaudito Moody’s che misura i danni dalla loro politica. «È il frutto del lavoro serio e silenzioso che stiamo portando avanti dall’inizio del governo» ha commentato il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti.
Il lato oscuro dell’outlook è stato riportato alla luce dalla Cgil. In una ricerca realizzata dall’ufficio economico del sindacato ieri c’è stato dato spazio a un aspetto decisivo: in Italia ci sono 6,2 milioni di lavoratori nel settore privato che guadagnano al massimo mille euro al mese, dunque meno di 15 mila euro lordi all’anno. Quelli che guadagno un poco di più, ma comunque meno di 25mila euro lordi annui, sono circa 10,9 milioni di dipendenti.
La ricognizione sulle tipologie contrattuali è uno squarcio nella nebbia della propaganda sul «tutto-va-bene-in-Italia». I lavoratori con contratti a termine e part-time hanno salari lordi annuali medi rispettivamente di 10,3 mila e 11,8 mila euro. Quelli che cumulano le due condizioni vedono ridursi ulteriormente il loro salario lordo annuale medio a 7,1 mila euro.
Gli altri fattori che determinano i bassi salari sono l’alta incidenza delle qualifiche più basse e la forte discontinuità lavorativa. L’83,5% dei rapporti di lavoro cessati ha avuto una durata inferiore all’anno, poco più della metà non sono durati più di tre mesi. La produzione di questo lavoro povero si regge sulle basse retribuzioni orarie. Almeno 2,8 milioni di lavoratori dipendenti hanno una retribuzione oraria inferiore a 9,5 euro lordi.
Osservati dal basso della piramide del lavoro e dei redditi si capiscono gli effetti degli anni dell’alta inflazione e dell’attuale insufficienza dei rinnovi contrattuali che, tra l’altro, riguarda poco più della metà dei contratti. Gli altri aspettano da tempo il rinnovo e questo è un altro modo per taglieggiare i salari bloccati in proporzione da trent’anni.
La Cgil ha pubblicato questi dati, non nuovi, per dare un’altra ragione di votare 5 «Sì» al referendum dell’8 e 9 giugno. La consultazione è considerata una leva per «rimediare a una situazione diventata intollerabile – sostiene Francesca Re David della segreteria confederale del sindacato – Occorre azionare tutte le leve disponibili: cancellare la precarietà, mettere in campo politiche capaci di invertire il declino industriale, approvare una legge sul salario minimo». Tutto quello che il governo non intende fare perché ci tiene all’outlook. Motivo in più per non credere alle apparenze.
ROBERTO CICCARELLI
Foto di Yury Kim