Esattamente due anni fa, il 7 ottobre 2023, le Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio militare di Hamas, sferravano un attacco terroristico di inaudita ferocia contro i kibbutz circostanti il confine della Striscia di Gaza, massacrando più di novecento persone e trucidandone altre trecento al Nova Festival in cui erano presenti più di tremila giovani. Il pogrom fu così una carneficina che fece contare oltre milleduecento morti. Le azioni dei miliziani di Hamas hanno contemplato stupri, sevizie, uccisioni di bambini bruciati vivi e altre atrocità che hanno veramente fatto rabbrividire l’opinione pubblica mondiale.
Hamas quel giorno rapì duecentocinquanta persone (di cui trenta erano bambini) e le portò a Gaza, segregandole nella fitta rete di cunicoli creata per la guerriglia cittadina. Tra quelli morti di stenti e violenze, tra quelli uccisi sotto i bombardamenti israeliani e quelli liberati in una prima fase di tregua, dimostratasi poi molto labile, in mano all’organizzazione terroristica jihadista ne rimangono ad oggi meno di cinquanta, forse vivi soltanto venti… Netanyahu ha impiegato forze terrestri, aeree e navali con il manifestato intento di vendicare i morti israeliani del 7 ottobre e liberare conseguentemente anche gli ostaggi. Dopo più di settecento giorni di conflitto, di distruzioni, di sterminio dei palestinesi, il risulato non è stata la fine di Hamas e la liberazione degli ostaggi.
A tutto l’orrore del 7 ottobre 2023 corrispose una più che comprensibile e giusta solidarietà nei confronti dello Stato ebraico che – come ha scritto Marco Travaglio – «per alcuni giorni era tornato dalla parte della ragione o, almeno, dell’aggredito». Poi, la rappresaglia nei confronti di Hamas si trasformò in altro rispetto al diritto al contrattacco, all’eliminazione della minaccia rappresentata dalla gruppo jihadista. Così Israele torno, abbastanza velocemente, dalla parte del torto: non solo per ristabilire gli equilibri interni e dare prova del fatto che i suoi servizi segreti, che avevano subìto un vero e proprio smacco, erano ancora pienamente efficienti e così il suo esercito, ma anche per riconfigurare la geopolitica mediorientale.
Così, il regolamento dei conti con Hamas si è trasformato in men che non si dica in un regolamento più generale dei conti con l’intero popolo palestinese: l’occasione è stata colta al volo dal governo di Netanyahu, trasformato in un gabinetto di guerra, sostenuto dai peggiori nazionalisti fanatici ultrareligiosi, suprematisti sionisti. Dopo due anni il bilancio è veramente devastante: tanto da aver suscitato indignazione persino tra i più fedeli alleati di Tel Aviv e aver smosso tante coscienze su un piano politicamente trasversale in quanto a colore politico, in quanto a credo religioso, in quanto a cultura più generalmente intesa.
I morti accertati (e, dicono molte ONG, ampiamente sottostimati come cifra totale) sono quasi settantamila. I feriti quasi duecentomila. In questo tragico, criminale conteggio, ventimila di quegli assassinati dalle bombe e dai missili israeliani sono bambini. L’intera popolazione civile di Gaza è stata presa di mira, senza esclusione di colpi. Quasi la totalità delle case è stata rasa al suolo e il deserto nelle città è l’orizzonte piano che si staglia su un cielo fatto di colonne di fumo tanto e più alte dei palazzi che vengono fatti saltare dell’IDF con la motivazione che sono basi di Hamas. Tanto ha fatto il governo omicidiario di Netanyahu, Smotrich e Ben-Gvir da far dimenticare il 7 ottobre. Se non in Israele, almeno qui in Occidente.
Si parla di data e di memoria rimossa: non è così. Per cercare di dare un posto al 7 ottobre 2023 nella storia recente, non si può astrarlo dal contesto in cui è maturato. E questo contesto è la settantennale lotta tra palestinesi e governi israeliani, fatta di negazione pressoché totale dei diritti ai primi: libertà civili, diritti sociali, indipendenza economica, terra e dignità. Ai gazawi come ai cisgiordani è stato tolto praticamente tutto. Ogni momento della loro esistenza dipendeva dai capricci israeliani; anche quando, per un attimo, è parso che la decolonizzazione della Striscia di Gaza attuata da Ariel Sharon sarebbe potuta essere una delle premesse utili allo stabilimento di una nuova serie di relazioni.
Le circostanze del caso, ossia la morte del generale-primo ministro e poi l’ascesa di Hamas al potere hanno capovolto le carte sul tavolo della Storia. Le corruttele governative da entrambe le parti hanno fatto il resto, o molto di quello che ne rimaneva per cercare di arrivare ad una soluzione condivisa del problema coesistenziale di due popoli tra il fiume e il mare. Ilan Pappé si dice convinto che ciò cui stiamo assistendo oggi siano i primi passi della fine del carattere sionista dello Stato di Israele e che, quindi, se non a breve, quanto meno certamente, assisteremo a passaggi traumatici che potrebbero anche essere solcati da nuove violenze.
Questo susseguirsi di eventi dovrebbe condurre ad una riconsiderazione complessiva tanto dall’esistenza dello Stato ebraico quanto del mai nato Stato di Palestina. Alle parole di un attento studioso e storico come Pappé bisogna prestare attenzione: non sono le uniche che muovono l’analisi storico-attualistica in questa direzione. Possono sembrare azzardate oggi, visto che, almeno sul campo, dopo aver devastato tutto, posto in essere un vero e proprio genocidio, attuando una pulizia etnica della Striscia di Gaza, attaccato e sconfitto (o quasi) tutti i suoi avversari e nemici esterni, Israele pare essere il vincitore incontrastato nell’intero scacchiere mediorientale.
Ma la considerazione di Pappé riguarda il progetto di un sionismo che rimane aggrappato ad un estremismo iper-religioso, fanatico al punto da teorizzare e praticare un razzismo manifestamente tale che è incompatibile con i princìpi di una vera democrazia parlamentare. L’eccezionalità dell’attacco sferrato contro il popolo palestinese la si sentiva già nell’aria in quei giorni, dopo il pogrom del 7 ottobre; questo almeno per chi mastica un po’ di storia mediorientale da tempo. Come avesse potuto Hamas penetrare le linee di controllo e di difesa israeliane, arrivare fin dentro il territorio dello Stato ebraico per decine di chilometri, devastarne i kibbutz e rapire addirittura centinaia di persone, aveva, fatte le debite proporzioni, in sé il richiamo ad una sorta di 11 settembre.
Un attacco inaspettato, fatto con mezzi non certo all’altezza delle potenze belliche sia a stelle e strisce sia con la stella di Davide, ma potente nell’evocazione dell’imprevedibile, dell’inaspettato, del tragico per eccellenza, quasi una apocalisse in casa. Lì dove nessuno poteva immaginare, neanche lontanamente, che il terrorismo potesse colpire con proporzioni così devastanti. Questo ha fatto dell’11 settembre e del 7 ottobre due eventi logicamente storici e, infatti, l’analisi storiografica li ha e li sta ancora abbondantemente studiando per cercare di dare loro una collocazione logica e cronologica nel susseguirsi degli avvenimenti.
Le motivazioni più cogenti che si sono potute riscontrare nell’attacco di Hamas sono più complesse da estrinsecare e definire rispetto a quelle che hanno spinto Netanyahu a muovere verso la distruzione totale di Gaza. Differenti scopi si sono compenetrati e hanno dato vita ad una maggioranza governativa di ultradestra che ha trasformato, unitamente a quella storica dell’emergenza nazionale continua per la sicurezza di Israele, il paese da democrazia a teocrazia. Che cosa abbia a che fare l’ebraismo con criminali contro l’umanità come Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, ma pure con il primo ministro, è davvero molto difficile poterlo dire, trovare una qualche plausibilità tanto storica quanto contemporanea e attuale.
Uno dei temi in questione, proprio dal punto di osservazione della storiografia di oggi è la sottovalutazione che Netanyahu ha avuto nei confronti di Hamas, percepito come un pericolo ormai secondario. Forse ritenuto abbastanza addomesticato dai foraggiamenti che gli provenivano tanto dal Qatar quanto dalle parti del governo israeliano negli anni in cui era utile pedina contro l’ANP di Abu Mazen. Poco prima della catastrofe del 7 ottobre, era la Cisgiordania l’osservata speciale: dei trenta battaglioni attivi dell’IDF, ben ventisei erano dislocati a ridosso della West Bank. A sorvegliare la Striscia di Gaza, oltre al reticolato e al muro di contenimento, da vera e propria prigione a cielo aperto, erano rimaste compagnie di reclute e la polizia locale.
Un altro dilemma è la capacità dei servizi segreti di intercettare i piani operativi di attacco di Hamas verso il territorio israeliano. Come è stato possibile che Shin Bet e Mossad si siano fatti trovare completamente impreparati di fronte a ciò? Nessuno aveva sentore dell’operazione “Alluvione al-Aqsa“, così come nel 1973 la guerra del Kippur colse di sprovvista governo e comandi militari? Duemilacinquecento miliziani sfondano le recinzioni con dei furgoncini, delle moto e degli improbabilissimi aeromobili che somigliano tanto a dei deltaplani modificati per l’occasione e riescono a commettere la più grande strage di civili mai registrata nella breve storia dello Stato ebraico senza che nessuno ne abbia un benché minimo presentimento.
Queste sono domande che rimangono aperte. Il complottismo non serve ad altro se non ad inquinare sempre e soltanto la verità dei fatti. Quindi porsi questi quesiti non è prevenzione, non è antisemitismo (accusa che verrà rivolta, in due anni di conflitto, un po’ a tutti coloro che non aderiranno perfettamente alla narrazione del governo criminale di Netanyahu), ma semplicemente un domandarsi il perché di stranezze che sono tali. Altrimenti i servizi segreti israeliani non sarebbero riconosciuti tra i migliori al mondo, al pari delle truppe di Tsahal, dell’aviazione, della dimostrata capacità di cogliere di sorpresa i capi di Hezbollah in Libano facendo esplodere i loro telefoni con sofisticati programmi inseriti per riscaldarne le batterie fino allo scoppio devastante; oppure uccidere nelle loro case i comandanti iraniani con i droni.
Perché il 7 ottobre è potuto divenire il 7 ottobre 2023? A questa domanda si può storicamente dare una consequenzialità cronologica, ma rimane, oggettivamente, insoluto lo scopo di Hamas. Possibile che l’0rganizzazione islamica sottovalutasse la reazione devastante di Israele? Si pensavano così forti da poter resistere ad una rappresaglia, ma non avevano messo in conto la furibonda guerra di annientamento che ne sarebbe venuta fuori? Se l’abbiamo immaginata noi appena saputo dell’entità dell’attacco nei kibbutz, è mai credibile che i comandanti e la dirigenza politica della jihad non possedesse questa percezione, non conoscesse i rapporti di forza esistenti?
Ricordare quanto accaduto due anni fa, quando è iniziata l’operazione “Spade di ferro“, vuol dire porsi queste domande. Dalla risposta che se ne riuscirà a dare, dipenderà forse anche il prossimo futuro tanto del popolo palestinese quanto di quello israeliano.
MARCO SFERINI
7 ottobre 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria







