Draghi chiude il rubinetto, l’Italia rischia

Alla fine la tanto attesa decisione è arrivata: la Bce (invero, le banche centrali nazionali, su mandato della Bce) comprerà titoli di stato dei paesi dell’eurozona, nell’ambito del programma...

Alla fine la tanto attesa decisione è arrivata: la Bce (invero, le banche centrali nazionali, su mandato della Bce) comprerà titoli di stato dei paesi dell’eurozona, nell’ambito del programma di Quantitative easing, fino a dicembre.

Da ottobre scatterà il dimezzamento degli acquisti (da 30 a 15 miliardi mensili), che si azzereranno a partire da gennaio.

Impugnato nel 2015 per portare l’inflazione della zona euro vicina al 2% (ora è stimata all’1,7%), il «bazooka» di Draghi ha fatto in questi anni anche da scudo contro gli assalti della speculazione ai «debiti sovrani». Li ha protetti, contribuendo a tenere bassi i loro rendimenti.

Per l’Italia un risparmio sul «servizio del debito» di circa 10 miliardi all’anno. Per evitare scossoni l’operazione di «spegnimento» lascerà a 0,00 il costo del denaro.

La fine del Quantative easing non comporterà dunque una rimodulazione della politica monetaria «convenzionale», così da evitare di aggravare la situazione economica, peraltro in fase di rallentamento (rivista al ribasso la crescita dell’eurozona per quest’anno, dal 2,4 al 2,1%).

Allo stesso tempo, Draghi ha chiarito che i proventi dei bond a scadenza, acquistati col Quantitative easing, saranno «a lungo» reinvestiti per assicurare liquidità al sistema.

Tutto a posto? Non si direbbe.

La crescita rimane debole, anche perché la liquidità immessa nel sistema non ha raggiunto l’economia reale. Sono mancate politiche fiscali espansive che accompagnassero gli stimoli monetari e investimenti pubblici e privati per rilanciare adeguatamente la domanda.

Ma tant’è. Dentro l’attuale governance europea, la Bce bada solo alla «stabilità dei prezzi» ed al mantenimento del «valore della moneta», mentre gli Stati, cui compete la politica fiscale, sono strozzati dalla «regola d’oro» del pareggio di bilancio.

Non solo.

Gli Stati dell’eurozona hanno anche un altro problema: non hanno difese immunitarie contro il virus della speculazione. Sono i mercati a stabilire le condizioni del loro finanziamento, le quali, c’è da giurarci, cambieranno sensibilmente dopo che Draghi avrà comprato l’ultimo titolo di Stato sul mercato secondario (dalle banche).

E chi rischia di più in questo quadro è l’Italia, col suo fardello di 2.300 miliardi di euro (131% sul Pil).

In questi giorni sta circolando una bozza di risoluzione sul Def il cui approdo a Montecitorio è previsto per il prossimo 19 giugno.

In linea con quanto aveva dichiarato il ministro Tria qualche giorno addietro sul Corriere della Sera, questo documento conterrebbe un principio di fondo: l’Italia perseguirà i suoi obiettivi programmatici «nel rispetto degli impegni europei sui saldi 2018-2019».

Tradotto: nessuna deviazione dei conti pubblici. Salvo accennare ad un nuovo quadro di finanza pubblica «in tempi rapidi», che, al momento, rimane un oggetto misterioso.

C’è l’impegno a sterilizzare le «clausole di salvaguardia», una manovra da 12,4 miliardi di euro. Dove prenderanno i soldi per non far scattare, a partire dal prossimo 1° gennaio, l’aumento dell’Iva dal 22% al 24,2%? C’è chi parla di condoni (la chiamano «pace fiscale») e di, immancabili, «tagli alle spese», chi di maggiore deficit (ma questo contraddirebbe l’impegno «sui saldi 2018-2019»).

L’unica cosa certa è che le grandi promesse della scorsa campagna elettorale, trasfuse nel «contratto del governo del cambiamento», si stanno infrangendo contro il muro delle compatibilità di bilancio, che, a quanto pare, il governo giallo-verde non è intenzionato a mettere seriamente in discussione.

Intanto, dall’economia i segnali non sono incoraggianti.

Tutti gli osservatori hanno rivisto al ribasso le previsioni sulla crescita del nostro paese (per l’Ocse, 1,4% quest’anno, 1,1% nel 2019). Stime che ben si sposano con gli ultimi dati sul calo della produzione industriale (-1,9% ad aprile su base annua), sul rallentamento dell’export (paesi extra-Ue), sulla fiducia delle famiglie.

Quanto incideranno questi dati sulla performance dei conti pubblici? Come si può pensare di mantenere gli «impegni sui saldi 2018-2019» se il Pil, anziché accelerare, arretra?

Domande che il ministro dell’economia si starà sicuramente facendo in queste ore, pensando, magari, anche all’impatto che avranno i nuovi rendimenti dei titoli di Stato sul quadro complessivo delle finanze pubbliche, a maggior ragione dopo la comunicazione di Draghi sulla fine del Quantitative easing.

LUIGI PANDOLFI

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

categorie
Finanza e capitali

altri articoli