Uno dei rischi è che ora, dopo l’inizio della guerra tra Israele e Iran (riconosciuta in quanto tale da entrambi), l’attenzione dei giornali, delle televisioni e di Internet si sposti tutta su quest’ultimo conflitto (solo in ordine di tempo) e smetta di occuparsi dell’altra grande guerra devastatrice: quella di Gaza. Ventimila bambini uccisi, cinquantamila morti, oltre duecentomila feriti gravi non sono stati sufficienti alla comunità internazionale per intervenire e sanzionare Israele.
Si tratterà anche di democrazie più o meno di vecchio retaggio liberale, ma quando si tratta di questioni economiche, quindi politiche e, pertanto, anche e soprattutto militari, la punta del diritto viene messa da parte e si privilegiano gli interessi materiali su cui si reggono le alleanze dei differenti poli concorrenziali nella globalizzazione capitalistica moderna. Giorgia Meloni, che rimane fedele a Trump oltre che, ovviamente, al trumpismo, sostiene l’azione israeliana contro l’Iran.
Parimenti, per poter ascoltare qualche timida parola di critica delle azioni di Tel Aviv a Gaza, si è dovuto attendere due anni di massacri, di stermini, di bombardamenti a tappeto: si è dovuto aspettare che la pulizia etnica divenisse manifestamente oggettiva, che qualcuno in più osasse pronunciare la parola “genocidio” per significare la pianificazione della distruzione della presenza palestinese in Palestina. Dalla Cisgiordania invasa dai coloni israeliani a Gaza trasformata da prigione a cimitero a cielo aperto.
Ora, la guerra contro l’Iran ha come inevitabile conseguenza massmediatica proprio la torsione delle telecamere e degli obiettivi fotografici da Gaza ai tanti bersagli vicendevoli dei missili e dei droni che sorvolano i cieli di Teheran e di Gerusalemme. Un altro conflitto, quindi, che si somma a quelli già in corso e che, se fosse ancora vivo, papa Francesco avrebbe stigmatizzato e condannato apertamente parlando ancora – non c’è alcun dubbio – di “Terza guerra mondiale a pezzetti“.
L’intero contesto mediorientale è ripiombato in un subbuglio squadernante ogni posizione costituita negli ultimi anni: i “Patti di Abramo” sono saltati, le relazioni bilaterali anche, le mediazioni cinesi (le uniche ad aver avuto un qualche successo nell’abboccamento tra Teheran e Riad) sembrano oggi lontane dal potersi nuovamente concretizzare; e la Russia, che esprime una condanna decisa per l’aggressione israeliana alla Repubblica islamica, deve occuparsi del fronte ucraino e del rapporto complesso col cosiddetto “Occidente“.
Davvero Netanyahu sembra seguire una bussola politica tutta personale, volta a proteggere tanto la sua persona quanto il suo status di primo ministro sempre più contestato e disprezzato entro i confini dello Stato ebraico; altrimenti non si compre il perché, proprio per contrastare l’acerrimo nemico iraniano, il primo nemico un po’ da sempre, quanto meno dopo la fatale Guerra dei Sei Giorni, il gabinetto di estrema destra non abbia proseguito sulla via del consolidamento delle relazioni con un mondo arabo ostile agli ayatollah.
Va detto che, in eguale misura, fino dalla Rivoluzione islamica del 1979 anche la vecchia Persia, trasformata in Iran, ha fatto di Israele e di frasi come “cancellare l’entità sionista dalla carta geografica” uno dei mantra privilegiati della sua narrazione ideologica, politica e persino culturale. La partita tra queste due potenze mediorientali, che – a quanto ne possiamo sapere – hanno tutte e due certamente il nucleare e quindi anche, probabilmente, riserve di testate atomiche (Israele ne avrebbe nei siti di stoccaggio di Eilabun a nord e Tirosh a sud), non è tuttavia alla pari.
Si parla opportunamente di “guerra asimmetrica“: tanto nei confronti dell’Iran quanto, soprattutto, nell’oggettività delle sproporzioni delle forze in campo sul terreno arido, pieno di macerie e di cadaveri in quel di Gaza. Le previsioni degli analisti, che interpretano le dichiarazioni dei comandi militari di Tsahal nonché quelle dello stesso Netanyahu, ci dicono che la guerra durerà almeno due settimane. Ma le intenzioni manifeste nascondono sempre dei secondi fini non detti e, quindi, è probabile che il conflitto aperto si trascinerà a lungo.
Soltanto un anno fa si potevano leggere su riviste di geopolitica internazionale, al riguardo dei rapporti tra Israele e Iran, analisi che esprimevano la forte preoccupazione proprio per il mantenimento della deterrenza da parte di Teheran nei confronti non solo dello Stato ebraico, ma dell’intero sciame di conflitti prodotti dalle azioni di Hamas il 7 ottobre 2023 e presi in prestito da Netanyahu per crearsi l’alibi permanente con cui sostenere la distruzione dei gazawi e l’inizio della fine della presenza palestinese nella Striscia.
Il “dilemma Gaza” è diventato tale nel momento in cui la guerra scatenatale contro non si è risolta con il raggiungimento degli obiettivi dichiarati dal gabinetto di guerra: la liberazione degli ostaggi, la liquidazione completa di Hamas e la messa in sicurezza di Israele da ogni minaccia possibile. Al momento, chiunque può constatare che nessuno di questi propositi, necessari a Netanyahu per dimostrarsi capace nella stessa gestione del potere e del governo e salvarsi dalle accuse e dai processi per corruzione, è stato portato a compimento.
Il fallimento dell’estrema destra nazionalista israeliana, quindi, viene edulcorato mediante un continuo perpetuarsi di uno stato di guerra che, come è noto, dovrebbe alimentare l’amor di patria, coalizzare la popolazione e farle dimenticare i guai interni. D’altro canto, di aiuto a questa impostazione è l’altrettanto oggettiva debolezza del regime iraniano: duramente contestato negli anni scorsi, ha ripreso il controllo di una piramide del potere in cui la Guida Suprema Khamenei rimane l’ultima carta di una leadership anziana di cui si fa fatica a vedere la successione.
Questo non significa che l’avvicendamento sia impossibile e che, con la spinta della guerra mossa da Israele a Teheran, si sia prossimi ad un qualche colpo di Stato o a una rivoluzione popolare che cacci lo spietato regime conservatore e oscurantista degli ayatollah. Ma di sicuro la prima generazione della vecchia sollevazione khomeinista è ormai giunta al limite del suo tempo, mentre la seconda generazione, fatta di tecnocrati e militari, della potentissima milizia dei Pasdaran (i guardiani della rivoluzione islamica) è per il momento su un fronte attendista.
Le differenze di interpretazione del modello sociale e civile cui si dovrebbe ispirare un moderno Iran sono abbastanza evidenti tra il senescente clero dei patriarchi alla Khamenei e i parlamentari, i governatori e la rete di amministrazione pubblica, nonché direttamente anche nei confronti delle forze armate. Ma una parte delle società civile, dei giovani, della cosiddetta “terza generazione“, è più propensa ad un cambiamento costituzionale rispetto ad una rivolta para-rivoluzionaria.
L’idea che circola è quella di un rafforzamento della figura del Presidente della Repubblica, in aperta rivalità con il massimo esponente del clero. A quel punto sarebbe il “nezam” (ossia l’intero sistema politico iraniano) a guidare quasi collettivamente un processo di mutamento istituzionale che, una guerra come quella portata ora da Israele direttamente nella capitale e, più ancora, nel quartiere dove vive il leader supremo religioso, non farebbe altro se non accelerare.
Ma la caduta del regime nel suo complicato assetto è difficile da prevedere: riformismo, pragmatismo e conservatorismo si giocano una partita non da poco. Tutti e tre questi “pilastri” sanno che separatamente contano relativamente e che i rischi di una intromissione estera nelle faccende interne iraniane sarebbe la conseguenza diretta e immediata dopo il crollo della piramide del potere che regge lo Stato da quarant’anni a questa parte. Non dimentichiamo l’elemento religioso che non è affatto di secondaria importanza. Tutt’altro. La saldatura tra clero ed esercito è avvenuta proprio in seguito alla radicalizzazione delle posizioni di entrambi.
Una lunga tradizione generazionale ha fatto sì che la prima generazione trasmettesse a quella seguente il sentimento dell’indipendenza della nazione su un presupposto identitario legato ad una missione divina che faceva dell’Iran il paese predestinato ad interpretare il volere di Allah nell’ambito dell’Islam più conservatore e radicale. La seconda generazione rappresenta indubbiamente l’ossatura del sistema istituzionale ma fa anche parzialmente riferimento ad una pluralità di tendenze culturali e religiose difficili da separare con nettezza. Conservazione e riformismo riescono, nonostante tutto, a convivere.
Per questo è molto complesso trattare la questione delle guerre in Medio Oriente utilizzando il solo metro occidentale: quello che separa l'”asse del male” da quello del bene… Israele pretende di rifondarsi e ricostituirsi sulle macerie di Gaza, sul colonialismo in Cisgiordania, annettendosi ancora un pezzo di Golan siriano e facendo leva, per una parziale stabilità di queste insicurezze più che evidenti, sulle contraddizioni evidenti tra i diversi paesi arabi. Ma Israele vive tutta una serie di contraddizioni cui deve fare i conti con sé stesso.
Fino a che la comunità internazionale lo sosterrà, potrà permettersi di rimandare questo autoesame psico-politico-militare. Ma un giorno toccherà anche a Tel Aviv scendere a patti con la propria storia e rendersi conto che le guerre che sta combattendo sono irrisolvibili, come quelle di un “War Games” in cui il computer Joshua alla fine constata che la migliore vittoria è non giocare, perché non c’è soluzione al gioco, non c’è vincitore ma vi sono, invece, tanti vinti. A cominciare dai civili, dalle popolazioni che pagano il prezzo più alto di tutta questa cinica, criminale partita.
MARCO SFERINI
14 giugno 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria