La preghiera indirizzata agli dèi è che non accada, che non avvenga. Che, per quanto la vita sia priva di un significato metafisicamente attribuibile al materiale, al propriamente tangibile e a ciò che è sensibile, la si possa comunque vedere, scorgere, sbirciare attraverso le fessure del proprio viso oltre che quelle molto più recondite della propria mente. Edipo e Tiresia dialogano proprio sulla coriaceità del destino umano che sembra non inverarsi mai.
Le linceziosità delle divinità, che discendono dall’Olimpo per incontrare le imperfezioni tutte degli uomini e delle donne, appaiono come degli scherzi quasi puerili, degli avvicendamenti di facezie che leniscono una sorta di condanna non tanto alla perfezione che il Cristianesimo ed altre religioni monoteiste assegneranno a Dio, quanto l’eternità come inseparabilità da un eterno presente i cui attimi si susseguono e non vi è mai pausa alcuna. Tutta una tirata che, proprio perché non ha un principio e non ha una fine, non si può nemmeno tanto definire tale.
Il cielo sopra le nuvole è abitazione del mito che si fa religione: entrambi oltrepassano secoli e millenni e mostrano la voglia, da parte del mondo ellenico, di dare vita ad una psicoanalisi ante litteram che prova a dare, se non proprio delle spiegazioni, almeno delle interpretazioni dei mali di un mondo i cui misteri rimangono tanti se inteso non solo come luogo terrestre in cui si vive la sensata vita quotidiana, ma come Universo il cui punto più chiaro corrisponde a quello più oscuro per impenetrabilità gnoseologica.
L’inconoscibile non è soltanto iperuranico, ma si trova soprattutto qui, in noi, intorno a noi. Cesare Pavese scrive i “Dialoghi con Leucò” (Feltrinelli, 2021) negli anni in cui la grande tragedia della Seconda guerra mondiale sta finendo e ci si incammina verso la ricostruzione di un’esistenza che è stata avvolta dalla prepotenza come elemento sovraordinante, come decisore primo ed ultimo delle vite di tutti e di ciascuno sulla base dell’identità, dell’appartenenza, di un codice proprietario, addirittura, di una distorsione dell’ingegneria genetica naturale.
La tempesta di fuoco del nazismo e del fascismo ha arroventato gli animi, li ha resi incapaci di aggrapparsi alle ataviche domande esistenziali che avrebbero ridimensionato l’importanza dell’essere o meno ariani, della potenza o della fiacchezza, della forza o della debolezza di un popolo piuttosto che un altro. La logica del micromondo ha, ancora una volta, prevalso sull’irragionevolezza delle piccole questioni terrestri rispetto all’immensità dell’esistente. Così, il ritorno al mito, vera e propria macchina del tempo oltre il tempo stesso, è catartico, rigenerante: aiuta a comprendere che le domande sono inevase. Da sempre.
Non è una scusa per disinteressarsi delle cose del mondo. Tutt’altro. Semmai è l’unico modo per dare a tutto quello che noi siamo e a ciò che ci accade una collocazione differente e più “universale” (oltre che “mondiale“), rendendoci edotti del fatto che molto di quello che andiamo cianciando come importante, necessario, imprescindibile e ineludibile, è poi ben poca cosa innanzi al non senso dell’essere e dell’esserci. Il mito non ci salva forse dalla tentazione dell’interpretazione ontologica del tutto e del particolare, ma ci fa sentire meno soli in questa ricerca costante.
Almeno per chi se la pone; senza dimenticare che la vita comunque scorre e che va vissuta seguendo l’istinto e la ragione. E proprio alla Ragione, con la erre maiuscola, si riferisce l’insieme di questi dialoghi che per Pavese sono un momento di alta espressione personale tradotta con la migliore delle sue prose: ciò che lui sa fare è scrivere e riportare quindi nei versi, nei dialoghi, nella narrazione concetti che, altrimenti, sarebbero quasi inesprimibili visto che sono, in tutta onestà, intimamente molto reconditi.
In tutto il libro non c’è azione, ma c’è riflessione: si pensa, ci si confronta e, appunto, si riflette, ci si specchia in sé medesimi e nel mondo fuori di noi. Non è solo pensiero ma immagine che si concretizza nella reciprocità, nella scoperta del sentire insieme che è terapeutico fino ad un certo punto. Perché le ataviche domande rimangono insolute, inevase e si finisce sempre, dopo mille affanni, col tornare alla casella di partenza di un gioco del destino che non ha mai fine e, per questo, non ha un fine. O, almeno, sembra non averlo.
L’irrimediabilità della condizione umana: siamo sedotti come Issione da ciò che è molto più grande di noi, da ogni sensazione e percezione dell’enorme, dell’imprendibile, dell’inarrivabile. Cerchiamo di oltrepassare confini che non raggiungeremo mai e aneliamo all’impossibile per dirci che il possibile è l’unico, seppure asfittico, mondo in cui deprimentemente rimaniamo avvinghiati. Qui coltiviamo il senso come elemento presente da cui non essere separati.
Issione, infatti, è un assassino nel mondo dei mortali e un fedifrago nel mondo degli dèi: uccide il suocero e ha un’amore impossibile per Era, la sposa del padre degli immortali. Zeus così lo intrappola nella ricerca di questo sentimento. La scalata dell’Olimpo è la raffigurazione di una umanità che ha smesso di guardarsi intorno e scruta oltre la propria bassezza-altezza. Ciò che non le è sufficiente diviene la premonizione di un futuro in cui la conoscenza è affidata al bisogno di sapere sempre un qualcosa in più e non fermarsi alla contemplazione del limitrofo.
Questo slancio dal possibile al probabile è il primo gradino di un desiderio che punta tanto alla conoscenza della conoscibilità (quindi alla vera e propria gnoseologia in quanto tale), così come alla sperimentazione delle esperienze, alla ricerca empirica per avere la dimostrazione che la nostra autocoscienza ci può permettere dei passi in avanti in tal modo. La cecità che Edipo spera di non conoscere mai, a differenza del povero Tiresia, è anzitutto il timore di non poter più, soprattutto in tarda età, continuare a vivere in queste contraddizioni.
La risoluzione dell’inconoscibile è, sebbene ricercata costantemente, anche un cambiamento così totalizzante da destare terrore e paura. La cecità non è però una soluzione: il non vedere non cambierà la condizione interiore di angoscia che pervade lo scrittore nel momento in cui, dopo la grande tragedia bellica, sopporta tutte le domande sul perché di un’umanità che si autodistrugge: le risposte storiche non sono sufficienti a placare tutti quei dubbi che provengono da una valutazione etico-antropologica dell’esistenza della specie umana. L’unica capace di discernere, di capire, di interpretare.
Il problema dell’identità dell’essere vivente senziente e consapevole dell’esserlo è nel dialogo saffico “Schiuma d’onda“. Il gettarsi tra i flutti marini, divenendone parte, ritornando costantemente a frangersi sulle onde, permette alla poetessa suicida di attraversare il vasto pelago dell’inquietudine esistenziale divenendo essa stessa l’Inquietudine e, quindi, «questo corpo ti respinge e t’infrange, e tu ricadi, e vorresti abbracciare lo scoglio, accettarlo. Altre volte sei scoglio tu stessa, e la schiuma – il tumulto – si dibatte ai tuoi piedi. Nessuno ha mai pace. Si può accettare tutto questo?».
La ricerca dell’atarassia, dell’assenza di dolore, l’elevarsi oltre l’ansia costante per gli eventi che ci riguardano, è fondamentalmente in un inutile sforzo dettato da un disagio pervasivo che non ci abbandona veramente mai del tutto. Se questo potesse essere, vivremmo probabilmente in una condizione “disumana“: saremmo qualcosa di separato rispetto alla nostra intima essenza che vive nell’oscurità e si esprime mediante le metaforizzazioni oniriche. La depressione pavesiana si esprime attraverso una conoscenza davvero grande dei miti greci.
L’invenzione di questi dialoghi non tradisce nessuna narrazione del passato: anzi, la rinvigorisce, la attualizza per un tempo moderno in cui la distruzione totale del mondo è stata ad un passo dall’essere realizzata e, quindi, la mortificazione dell’intelligenza, dalla capacità cosciente ed autocosciente umana è stata così mortificata da porre nuove, terribili e tetragone domande. Anche a queste, si intende, le risposte sono tante ma rimangono sulla superficie di un’acqua maleodorante: galleggiano come escrementi di una frustrazione che non lascia scampo.
Il destino non esiste e se esiste è cinico e baro come sembra esserlo l’affidare l’essere e l’esserci ad una creazione divina che pretende la fine del mito e l’inizio incontrastato della religiosità: molto più anestetica, inebriante e anche deludente forma di “consolatrix afflictorum” che ha ben poco di mariano e molto di marxiano oppiaceo popolare. Scrive Pavese in una delle sue ultime lettere: «Non si può bruciare la candela dalle due parti – nel mio caso l’ho bruciata da una parte sola e la cenere sono i libri che ho scritto».
Pavese sceglierà proprio questi dialoghi come lascito testamentario: sulle prime pagine vergherà poche parole: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». La mite gentilezza è prodromo alla commozione per una dipartita che affida alla bellezza esasperante dei grandi misteri dell’esistenza tutto il significato di una ricerca che non termina se non con il limite della morte fisica. Siccome non possiamo sapere se è una fine assoluta, se la materia cosciente è riconducibile e identificabile soltanto con la materia stessa, i miti ripresi da Pavese finiscono per somigliare ad una laica speranza.
Guccini fa dire al suo Cyrano, preso dall’amore per Rossana, che deve esserci in cielo, in terra un posto, «dove non soffriremo e tutto sarà giusto»; per compensare tutte le tribolazioni terrestri, tutte le ingiustizie che non solo Madre Natura ogni tanto ci manda (cataclismi, malattie…) ma, prima di tutto, ciò che noi per primi induciamo come elementi dirimenti in una passività esistenziale che diviene, così, una attività annichilitrice, devastante: il contrario dell’essere. Lirismo e mitologia convivono, non senza qualche forzatura, nella ricerca dell’amore.
La solitudine opprime nel momento in cui è sinonimo di inespressione dei propri sentimenti: proprio quando percepisci un potenziale emotivo che potresti regalare senza pretendere nulla in cambio, se non l’affetto di chi lo riceve, ecco che lì, sulla soglia di questa forza si apre la voragine nell’attimo in cui nessuno è pronto ad accoglierti. Sempre nell’agosto del 1950, scrive Pavese: «Posso dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco, che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio, e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo?».
Esiste dunque il destino cinico e baro? Una sorta di incasellamento inevitabile in cui si deve stare e sottostare senza potersi divincolare per trovare la propria naturale espressione singolare in questa esistenza indecifrabile? Dal dialogo di Eracle e Prometeo provengono queste parole: «Ciascuno lavora per gli altri, sotto la legge del destino». Sangue chiama sangue, evangelicamente lo si potrebbe tradurre con: violenza chiama violenza. Questa semmai è la legge di un destino che riguarda le azioni a cui corrispondo delle reazioni. Siamo responsabili di ciò che facciamo. Ma lo siamo anche di ciò che subiamo.
Parrebbe di sì, se non ci ribelliamo, se non assumiamo una postura coscienziosa e capace di rivendicare il diritto ad una prossimità a ciò che può renderci felici senza ridurre gli altri al rango di adepti di questa ricerca: quando questo avviene, non sono gli dèi che vanno temuti ma i mortali. Sono gli esseri umani i peggiori, vendicativi dèi di loro stessi. Sono loro che condanneranno al destino della rupe i nuovi Prometeo di un mondo moderno che, solo per il fatto di potersi proclamare tale, non vuol dire che sia così evoluto.
DIALOGHI CON LEUCÒ
CESARE PAVESE
FELTRINELLI, 2021
€ 11,00
MARCO SFERINI
2 aprile 2025
foto: particolare della copertina del libro
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