David Lynch, nella mente del sognatore

Addio al grande regista, morto a 78 anni. «Velluto blu», «Mulholland Drive» tra i suoi capolavori. L’arte, l’esordio con «Eraserhead», un’opera che ha mutato il cinema

Quando David Lynch vince la Palma d’oro al Festival di Cannes è il 1990, il film è Wild at Heart (Cuore selvaggio), il presidente della giuria Bernardo Bertolucci che nel sentimento nouvelle vague mai perduto poteva dare il massimo premio solo a quel film, a quella storia d’amore selvaggia, in un paesaggio americano di deserto e lamiere accartocciate, corpi, teste spaccate e dita che ci mescolano il cervello, dolcezza e figure di ambiguità potenti, psicopatici intossicati e strane fate.

Sailor e Lula vivono una passione oltre il tempo – ma quale tempo? – oltre se stessi, nella grana di immagini sensuali e «scure», nel flusso della voce di Chris Isaak che ripete: «No, I don’t want to fall in love (This world is only gonna break your heart) –No, I don’t want to fall in love (This world is only gonna break your heart) –With you (This world is only gonna break your heart)». Wicked Game. Un gioco crudelissimo.

Il premio fece arrabbiare la critica più paludata – Micciché urlava «è uno scandalo!» – mentre le giovani generazioni cinefile avevano già rimodulato i loro sguardi sulle immagini di questo magnifico regista che ne aveva stravolto le certezze sin dal suo esordio: Eraserhead – La mente che cancella (1977).

La bolla social – che ieri alla notizia della sua morte è esplosa di fotografie e messaggi di disperazione – non esisteva ancora ma l’immaginario collettivo era già mutato e lo sarebbe stato ancor di più, film dopo film, dagli universi lynchani fino a lasciarsi trasportare, poco dopo, nell’oscurità di Twin Peaks, chiedendosi chi ha ucciso Laura Palmer lungo i passi che in quella geometria di ossessioni sono disegnati dalle tracce illeggibili, da pezzi di legno e dalle riflessioni a alta voce registrate dall’agente Dale Cooper. Fra il tempo di nuovo oltre se stesso dilatato dalle note di Angelo Badalementi in quella che diventerà «la madre» delle serie a venire.

Ma Lynch era già Lynch, le sue visioni avevano appunto iniziato a scavare nell’immaginario ai tempi del suo esordio, un film in bianco e nero girato con pochi amici e i soldi presto finiti della scuola, in cui nessuno credeva. Lui per farlo ci aveva messo degli anni, aveva divorziato e perso anche la casa: Eraserhead – La mente che cancella era apparso come una meteora nel 1977 – Kubrick lo aveva definito uno dei suoi film più amati, e Enrico Ghezzi scrive a proposito: «Come Shining, Eraserhead stupisce per la capacità di tener fede alla forma linguistica dell’inconscio».

Lynch dirà di essersi ispirato al proprio vissuto, agli anni in cui abitava a Philadelphia, quando studiava all’Accademia di Belle Arti, e al sentimento di panico verso quella città industriale e violenta che si amplifica e distorce nell’universo di Jack Nance, l’impiegato trentenne coi capelli gonfi, ti, terrorizzato dalla nascita di un figlio «mostruoso».

Che rispecchia quel mondo dove vagano vermoni a forma di spermatozoi, donne con le guance consumate, e lui che a un certo punto di trova costretto a infilzare i polmoni pieni di pus di quel figlio spaventoso, col quale è rimasto solo, la donna che lo ha partorito si è volatilizzata. E intanto Henry è sempre più allucinato, gli appare una cantante bionda che si esibisce su un palcoscenico di legno dentro a un termosifone e il vicino violento lo terrorizza.

Mentre il suono, respiro industriale della città lo schiaccia – Lynch ha lavorato con Alan R. Spelt). Perché la musica, la sonorità è sempre impasto del fotogramma, entra nella sua grana, diventa texture spessa, liquida, avvolgente, mai colonna sonora, permea le teste e le emozioni, si fa segno di un’epoca. Lynch che era anche musicista ne conosceva gli intimi segreti, sapeva modularne i sensi e le variazioni, così come conosceva i prismi di ogni immagine, la sua materia che maneggiava tra pellicola e materialità della pittura.

Blue Velvet – cantava nello Slow Club Isabella Rossellini, risuonano quegli anni Ottanta della notte, non c’è un registratore ma Frank Booth (Dennis Hopper) inala violenza e sadomaso, o lati oscuri personali e collettivi, che sono addentarsi ancora e sempre in territori inesplorati.

David Lynch era nato a Miossoula, in Montana – la città che Malick cita in La rabbia giovane – nel 1946, aveva iniziato con gli studi di arte, per poi passare al cinema con una borsa di studio all’American Film Institute – con la quale realizzo appunto Eraserhead. Ma non ha mai optato per un solo campo: artista totale ha sperimentato il disegno, la fotografia, le installazioni, la scultura, la pittura – e pure il decor, suo quello della discoteca francese Silencio.

Nella mostra realizzata nel 2007 per la Fondation cartier, The Air Is on Fire aveva lavorato tra plastici e 3D aprendo una visione che risaliva alla sua stessa infanzia: una versione fisica che dava agli oggetti concerti lo stesso potere di fascinazione delle sue immagini. Ma sono questi i motivi della sua poetica, le creature «altre» come l’Elephant Man (1980) rifiutato dagli studios, che diventa un altro punto di ripartenza dell’immaginario.

Del resto con gli studios Lynch non ha avuto mai fortuna con gli studios hollywoodiani, De Laurentiis gli finanzia Dune (1984) e Blue Velvet (1986) mentre Francis Bouygues Lost Highway (1997) e Twin Peaks Fire Walk With Me (1992). Altri universi paralleli potenti che sconvolgono qualsiasi percezione narrativa, portandoci in storie che si scompongono e ricompongono da punti di vista ogni volta diversi.

In fondo quel piccolo palcoscenico degli inizi è sempre lì: la scena, il gioco delle apparenze. Pensiamo a Mulholland Drive (che rivelò Naomi Watts), un Sunset Boulevard all’inverso che intreccia identità e misteri del destino, feroce doppio dello star-system di cui frammenta le certezze.

Lynch aveva detto in una intervista la scorsa estate (a Sight and Sound) che era molto malato ma aveva anche promesso che non sarebbe mai andato in pensione. Twin Peaks: The Return (2017) rimane così la sua ultima opera. Ha fatto esplodere ancora una volta la televisione, e insieme il sistema dell’immaginario portandoci sui bordi in cui la frontiera tra reale e sogno svanisce.

CRISTINA PICCINO

da il manifesto.it

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Cinema

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