Dalla Chiesa a Casa Savoia: il lungo cammino delle “scuse” in Italia

Dovrebbe esistere una buona norma non scritta, quindi un criterio abitudinario, una consuetudine consolidata che dichiari le scuse delle vere e proprie scuse se fatte entro un determinato tempo:...
1938, anno delle leggi razziali. Hitler in visita a Roma. Sul palco con lui, Benito Mussolini e il re Vittorio Emanuele III

Dovrebbe esistere una buona norma non scritta, quindi un criterio abitudinario, una consuetudine consolidata che dichiari le scuse delle vere e proprie scuse se fatte entro un determinato tempo: questo non per un capriccio meramente temporale, ma perché il tempo, per caratteristica dimensionale che gli è del tutto propria, tende a cancellare la memoria, i ricordi e, con essi, l’importanza che un dato evento ha avuto sia nella nostra storia personale e individuale si in quella più generale di una comunità, addirittura di un intero popolo.

Ad esempio: le scuse della Chiesa Cattolica nei confronti di Galileo Galilei, arrivate dopo secoli in cui ufficialmente oltre Tevere ritenevano ancora che fosse il Sole a girare attorno all’orbita terrestre, sono forse scuse? Non lo possono essere nei confronti del grande scienziato visto che non le ha potute accettare in tempo e, poi, somigliano tanto ad un gesto riparatore, nemmeno poi con tanto imbarazzo, davanti all’ineluttabilità delle dimostrazioni che l’astrofisica è in grado di mettere in campo insieme alla cosmologia per dimostrare tanto ai papi quanti ai terrapiattisti che  l’errore c’era, ma non era commesso da Galileo.

Le scuse per aver mandato al rogo Giordano Bruno sono ancora lì che volteggiano per l’aere, così come quelle per negare in realtà ciò che la Chiesa Cattolica ha rappresentato per millenni: un potere oppressivo, discriminante, sostenitore dei peggiori regimi imperiali che massacravano e torturavano nel nome della cristianità. Dalle Crociate in Terrasanta fino alla caccia alle streghe, dalla persecuzione dei cosiddetti “eretici” ai ghetti ebraici.

Pareva brutto infatti dare la colpa ai romani, che stavano accettando il culto cristiano nel loro impero, della crocefissione di Gesù. Meglio attribuire a Pilato poteri che non aveva (solo l’imperatore poteva graziare un prigioniero destinato alla morte), liberare Barabba e, seguendo la presunta volontà di uno sparuto gruppo di ebrei dell’epoca e della casta sacerdotale del Tempio, condannare il falegname di Nazareth.

Le scuse per Galileo, per Bruno, per le decine di migliaia di donne mandate a morte e per l’accusa di “deicidio” per gli ebrei, sono tutte tardive, quindi più che scuse sono adeguamenti ad una modernità tanto del culto quanto del potere ecclesiastico che deve poter conservare una dignità – almeno apparente – se non vuole trascinarsi dietro altri casi attuali che possono divenire storici.

Non per nulla, più repentina è stata, almeno da parte di papa Francesco, la condanna dei casi di pedofilia: qui non siamo innanzi a fatti accaduti centinaia di anni fa, ma ad una strettissima attualità che esigeva prontezza di intervento e superamento di una certa timidezza nell’autocritica da parte di precedenti pontefici tuttavia molto solerti nella condanna del “relativismo” come male del mondo moderno.

La Chiesa e lo Stato, le scuse dell’una e quelle di chi ha retto questo nostro Paese per un’ottantina di anni dalla sua nascita nel 1861. I Savoia, esiliati costituzionalmente nel 1946, dopo la proclamazione della Repubblica Italiana, sono politicamente responsabili dell’ascesa del fascismo: per non aver consentito a Facta di bloccare la marcia su Roma cingendo la capitale in uno stato d’assedio che impedisse alle camicie nere di prendere il potere; per aver consentito che la monarchia, spaventata dal “pericolo rosso” e dalle rivolte sociali, poggiasse le sue stanche membra su un regime assoluto e totalitario, creando un dualismo inedito nella storia di un regno, limitandosi a regnare, lasciando governare la cricca di criminali e torturatori che circondava Mussolini e da cui prendeva espliciti ordini.

I Savoia sono politicamente responsabili davanti alla storia d’Italia della promulgazione delle “Leggi razziali” nel 1938: per la prima volta nella storia del Paese, una differenza culturale e religiosa viene ad essere un elemento di discriminazione addirittura fondato sulla “razza“, quindi su una presunta particolare inferiorità degli ebrei nei confronti degli italiani “propriamente detti” e intesi in quanto di fede cristiana, di culto cattolico, di adesione al fascismo come ulteriore elemento probante della vera discendenza dalle “stirpi di Roma“. Genuflessione del regime di Mussolini alla potenza imperiale germanica, al nazismo hitleriano: un adeguamento che è insieme omaggio e rinnovamento dell’alleanza nel momento in cui il Terzo Reich si avvicina ai confini nordici dell’Alto Adige con l’anschluss dell’Austria.

Fin qui la Storia. Nell’oggi, ben vengano le scuse del discendente dei Savoia per quelle leggi devastanti, che hanno diviso decine, centinaia di famiglie; che hanno costretto i bambini a non poter più andare a scuola, senza che potessero capirne il perché: così da un giorno all’altro. Non c’era il Covid-19 allora. Non si poteva spiegare ai propri figli che la scuola poteva essere fonte di contagio per via di un virus. Bisognava prendersi i ragazzi sulle ginocchia e dire loro che qualcosa era cambiato, che da quel giorno in Italia non c’erano soltanto italiani anche ebrei, ma che c’erano invece ebrei che, secondo il fascismo, non potevano più considerarsi italiani.

Molti matrimoni non poterono più essere celebrati, se non clandestinamente. Molte persone non poterono più insegnare nelle scuole del Regno, ricoprire incarichi pubblici, far parte dell’amministrazione dello Stato, lavorare in una banca o anche far parte di semplici associazioni di categoria o di circoli culturali e sociali.

Se è pur vero che Vittorio Emanuele III aveva avuto un medico di corte ebreo e che i suoi colloqui con Mussolini riguardo il razzismo di Stato non erano improntanti da piena accettazione del fenomeno fascista, è altrettanto corrispondente ai fatti che il sovrano firmò quelle leggi, così come assunse il titolo di “Imperatore d’Etiopia” dopo una guerra di sterminio degli abissini che andava di pari passo con i trattamenti che subiva la Libia nella forzata colonizzazione italiana guidata, tra gli altri, dalle crudeli repressioni del maresciallo Graziani.

I tentativi di separare le responsabilità della monarchia da quelle del fascismo sono all’ordine del giorno: c’è chi ritiene che il re abbia obbedito a doveri cui non poteva non sottostare, tenendo conto della estrema popolarità di Mussolini e del radicamento del regime nell’intero Paese, oltre alla stipula del “Patto d’acciaio” con la Germania nazista. E’ una declinazione storiografica degli accadimenti che porterebbe a considerare Casa Savoia come imbrigliata ed “imprigionata” nelle maglie del governo mussoliniano. Qui non siamo davanti ad un tentativo di revisionismo storico, semmai di minimizzazione di un ruolo che invece era dominante e che avrebbe potuto fare la differenza se la volontà del re si fosse imposta e avesse ingaggiato un duello ultra-istituzionale col regime.

Differentemente dal Terzo Reich, l’Italia conserva una particolarità già evidenziata: ha un re e un “duce“. La dittatura del Partito Nazionale Fascista è un regime politico che si esprime mediante la sospensione di quelle garanzie statutarie che avevano retto la vita del Paese fino ai primi anni ’20. Nonostante la marcia trionfare del fascismo fino all’occupazione di tutti i gangli dello Stato, l’istituto monarchico non viene meno. Resta sullo sfondo, ma non è privo della scena quotidiana nella vita degli italiani: il re è comunque il sovrano e può licenziare il capo del governo in ogni momento.

Sarà evidente quando, il 24 luglio 1943, si creeranno quelle condizioni favorevoli di frizione interna al PNF che porteranno alla sfiducia da parte del Gran Consiglio del Fascismo nei confronti di Mussolini e la riproposizione della monarchia come guida militare (e politica) di una Italia sull’orlo del tracollo bellico.

Casa Savoia ha stabilito invece nel ventennio un rapporto di collaborazione col fascismo e l’ha fatto opportunisticamente, evitando considerazioni di carattere anche solamente liberale sullo stato di vita dei cittadini, sui diritti fondamentali negati, sulla fascistizzazione di ogni settore della vita sociale e pubblica. Nemmeno davanti all’orrore delle “Leggi razziali” è venuta pronta una protesta vibrante del re e, meglio ancora, un suo rifiuto a firmare un provvedimento così infamante.

Infatti, nella lettera di scuse, Emanuele Filiberto si esprime così: «Una ferita che ho sempre avuto nel cuore. Ritengo che sia ora di prendere le mie responsabilità e di scrivere questa lettera alla comunità ebraica per chiedere perdono. Perdono per quell’atto orribile, osceno, e per la firma di Vittorio Emanuele III». Sono parole importanti, ma tardive. Perché arrivano solamente 83 anni dopo? Perché, se non nella convulsione degli avvenimenti di guerra, almeno nell’immediato periodo post-bellico, in quel 1946 in cui si decisero le sorti della forma dello Stato, la monarchia retta da Umberto II non scelse di dire una parola che fosse una sulle leggi razziali e provare a riabilitarsi davanti a 40 milioni di italiani immiseriti, defraudati della libertà per oltre venti anni?

La risposta agli storici che indagheranno ancora il periodo più buio della storia d’Italia. Perché noi possiamo solamente prendere atto di queste scuse tardive, magari anche accettarle, ma non possiamo dimenticare che i Savoia lasciarono il Paese in balia dei tedeschi, che fuggirono a Brindisi, che abbandonarono ogni tentativo di resistenza alla calata nazista verso Roma e il Sud. Così non possiamo dimenticare Cefalonia e le tante stragi compiute in un’Italia riscattata solamente dalla Resistenza antifascista e che, giustamente, unì tutte le forze per cacciare fascisti e tedeschi e rinviò la fase costituente del rinnovamento dello Stato al termine del conflitto mondiale.

Sulla bilancia della politica italiana, la condanna dei Savoia è storica. E’ quindi un dato di fatto, non una interpretazione di ciò che accadde. Per questo le scuse tardive sulla promulgazione delle leggi razziali sono solamente un fatto. Ma di oggi e non più contestuale di e in un periodo in cui potevano avere un valore enormemente diverso.

Ormai hanno il sapore di un accorgimento scontato, visto che – almeno così dovrebbe essere – la condanna per quella firma del re sotto le leggi scritte dai fascisti e volute da Mussolini per cementare ancora di più il legame con Hitler, si aggiunge ad una consapevolezza unanime, ad una sensibilità comune che è etica, che è morale politica e fondamento civico delle libertà costituzionali di una Repubblica che, per l’appunto, nasce sui valori esattamente opposti della Resistenza, dell’antifascismo.

MARCO SFERINI

23 gennaio 2021

foto: Wikipedia

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