Dal “caso Alemanno” al fine vita: la destra e i diritti negati

Storico esponente della destra missina prima, di Alleanza Nazionale, ministro delle politiche agricole e forestali nel governo Berlusconi dal 2001 al 2006 ed ex sindaco della capitale, con qualche...

Storico esponente della destra missina prima, di Alleanza Nazionale, ministro delle politiche agricole e forestali nel governo Berlusconi dal 2001 al 2006 ed ex sindaco della capitale, con qualche breve passaggio ne “La Destra” di Storace, Gianni Alemanno è finito in carcere dopo aver violato le prescrizioni sulla possibilità di scontare la pena di un anno e dieci mesi a cui era stato condannato nel 2022 per finanziamento illecito e traffico di influenze illecite, nell’inchiesta chiamata dai giornali “Mafia Capitale”.

Da detenuto ha potuto, suo malgrado, scoprire la durezza della restrizione della libertà e tutte quelle condizioni che i carcerati vivono e che proprio la sua parte politica vorrebbe sempre più intransigenti, dure, per dare il messaggio che contro la malavita e contro chi delinque non deve esservi nessuna pietà. L’MSI e anche AN non sono mai stati troppo teneri nella valutazione della sopravvivenza carceraria: sbarre e segrete sono state invocate unitamente alle richieste di poteri speciali per i governi.

Addirittura, uno dei leit motiv della destra post-neo-fascista era il ripristino della pena di morte come epifenomeno eclatantemente dominante di una declinazione del diritto italiano ispirata alla vendetta di Stato piuttosto che alla giustizia. Del resto, anche solo accostare i precetti del mussolinismo d’antan ad un qualcosa che, anche vagamente, potesse somigliare al liberalismo illuminista in tema di delitti e di pene, era un ossimoro soltanto a pensarlo. Non di meno lo fu per tutta la seconda metà del Novecento, quando la destra in cui militava Alemanno sosteneva la durezza in tutto e per tutto contro delinquenti di ogni tipo.

La destra, fascistizzando qualunque cosa e chiunque, non ha mai ritenuto di dover interpretare le differenze, di cercarne le peculiarità ma ha uniformizzato, tagliato sempre con l’accetta ogni problema, superficializzato le questioni e volutamente banalizzato concetti, situazioni, pensieri, persone per far passare il messaggio pregiudiziale che solamente con l’energia della forza si risolvono le questioni e non con il tentativo di comprenderne i motivi scatenanti. Adesso, proprio Alemanno, dopo aver constatato di persona (e, sinceramente, ce ne dispiace) la realtà del carcere, invoca più diritti e condizioni umane nella detenzione.

Non lo fa ovviamente soltanto per sé stesso, ma, nello scrivere una lettera ai Presidenti delle Camere, denuncia tutte quelle che sono le fatiscenze, le incongruenze, le mancanze e le asfitticità di un sistema che è, già di per sé, la quintessenza della pena (in tutti i sensi). La destra in cui Alemanno militava e di cui era dirigente si è sempre detta contraria a qualunque forma di attenuazione delle misure più dure; ha ostacolato indulti e amnistie, ha fatto Leggi come la “Bossi-Fini” che estendevano le pene carcerarie e ha eletto la detenzione dura a modello quasi etico di un diritto assolutamente illiberale, classista e incostituzionale.

Sempre questa destra, variamente rappresentata da grandi e piccoli partiti, più o meno eversivi e irriconoscenti il carattere antifascista della Repubblica e della Carta del 1948, ha tentato la trasformazione dell’Italia in un vero e proprio grande carcere, riprendendo temi, ai tempi del terrorismo, come lo “stato d’assedio” (cui si fa riferimento – dato anche il termine – quando si è in uno stato di guerra), come quei tanto agognati “poteri speciali” che anche oggi il governo vorrebbe e che tenterà di prendersi con una controriforma come il “premierato“, per fare del Parlamento un obbediente servitore e non più il centro della formulazione e dell’elaborazione delle Leggi.

Bene che Alemanno si sia reso conto di cosa sia veramente il carcere e di quanto possa divenire disumano nel momento in cui è esacerbato come unica soluzione ai problemi sociali e, contestualmente, gli si forniscono così pochi sostegni perché ritenuto un vero e proprio “bagno penale” maleodorante, dove la dignità viene tolta ai detenuti che, purtroppo sempre più spesso, non sono considerati cittadini ma solo dei reclusi a cui far scontare una pena con, sommata a quella comminata dai giudici, tante altre pene: compresa l’acqua calda che non arriva nelle docce o nei lavandini, il sovraffollamento delle celle, l’afa dei mesi estivi sempre più torridi…

Detenuto a Rebibbia, Alemanno descrive l’ambiente come un vero e proprio inferno: non ci sono ventilatori per attenuare la calura e, soprattutto, grazie proprio alla destra di cui ha fatto e fa parte tutt’ora, ogni protesta carceraria, anche per chiedere un po’ di sollievo dalle temperature africane del momento, è reato e prevede altre pene… Ciò dovrebbe dimostrare agli esponenti del governo e della maggioranza iperconservatrice e forcaiola che per comprendere il disagio, le sofferenze e gli stigmi vissuti, in questo caso, dai carcerati le vie sono due: la prima è fare parte di quella popolazione, proprio come sta tristemente constatando Alemanno; la seconda è immedesimarsi il più possibile.

La seconda opzione richiede, a differenza della prima, un apriorismo che, tuttavia, può diventare consapevolezza compiuta e, quindi, coscienza formata, nell’attimo in cui ci si pensa dentro le celle strette, con altri detenuti, senza spazi adeguati, moltiplicando la sensazione di soffocamento di questi giorni (e delle settimane a venire… visto che si tratta di un cambiamento climatico che – guarda un po’… – la destra di governo nega vistosamente e con spavalda tronfietà). Magari pure riflettendo sul fatto che non tutti i detenuti sono in perfetta salute: vi sono persone con dipendenze gravi, con problemi di salute mentale, donne incinte…

Le fragilità sono moltiplicate dalla condizione detentiva e la repressione penale non è mai un elemento risolutore delle problematiche sociali ed economiche da qui proviene la maggior parte dei delitti. La destra ha sempre e soltanto speculato per fini elettorali e politici, quindi per assestarsi su comodi piani di acquisizione del potere, sulle debolezze personali, sugli inciampi dei tanti microcriminali arruolati, proprio perché indigenti, nelle fila della grande criminalità organizzata. Sfruttati da questi e gettati a marcire dietro le sbarre, dimenticati da una società che preferisce pensarsi pulita, linda, immacolata, mentre è profondamente corrotta.

È molto importante che un esponente delle destra intransigente come Alemanno si sia potuto rendere conto che tutte le denunce fatte dai radicali e delle forze della sinistra sui temi che riguardano l’invivibilità delle carceri italiane non siano mera propaganda, bensì corrispondano concretamente ad una realtà insopportabile e incompatibile con i princìpi del diritto costituzionale, della giustizia piuttosto che della vendetta di Stato. La sua testimonianza può essere di aiuto per aprire qualche spiraglio di verità nel muro del preconcettualismo fanatico di chi non vede altro se non le manette, le pene, le celle e le sbarre come argine ai problemi sociali e civili.

Quanti migranti e quanta povera gente finisce dietro quelle sbarre e, non avendo la possibilità di interloquire con le alte sfere dello Stato come fa invece Alemanno, rimane anonimamente a soffrire nell’indifferenza più generale e, peggio ancora, nell’anatema costante di un diffuso antisentimento primitivo fatto soltanto di odio, di razzismo, di discrimine e di stigmatizzazione… L’empatia, se la si favorisce indubbiamente anche con la trasmissione orale e scritta delle proprie esperienze, quelle di vita vissuta (come i percorsi della memoria dei deportati nei lager nazisti e il loro racconto alle giovani generazioni), deve essere supportata come esercizio di ricostruzione del tessuto sociale e culturale del Paese.

Per darle questo supporto va fatto l’esatto opposto di ciò che il governo Meloni sta facendo da tre anni a questa parte: maggiori finanziamenti alla scuola pubblica e al mondo del sapere in generale, più sostegno alle alternative al carcere come espiazione delle pene comminate dai tribunali; una concezione rinnovata del diritto nella cornice di un egualitarismo che non puà venire meno nel momento in cui chiunque di noi dovesse varcare la soglia di un istituto carcerario. Al netto di quello che viene stabilito nelle sentenze delle corti di giustizia, nessuno può pensare che il carcere debba essere un calvario. Forse la restrizione della libertà non basta per placare la sete di vendetta?

Ed è proprio qui il punto: è ovvio che quando sentiamo parlare dei tanti fatti di cronaca nera, di delitti efferati, nonché di stragi, il primo un po’ bestiale istinto è invocare il massimo delle pene (nel migliore dei casi…), mentre altri si profondono nella voglia di palle al piede, botte, torture, “il far passare a loro quello che loro hanno fatto passare alle loro vittime“. Ma, a mente fredda, questo è comprensibile entro il perimetro di uno Stato davvero democratico, libero e civile? Dipende da cosa intendiamo per democrazia, libertà e civiltà: se però la Costituzione della Repubblica ha ancora un qualche ascendente sul suo popolo, allora dovremmo sapere il valore di questi elementi della vita in comune.

Pensiamo per un attimo alla questione in discussione proprio in questi giorni sul “fine vita“. Il governo meloniano incontra il Vaticano, si tiene alla larga dalle associazioni che vorrebbero normare la pratica dell’eutanasia e formula un testo di un Disegno di Legge in cui esclude che il Servizio Sanitario Nazionale possa essere messo a disposizione del paziente che non ha più alcuna speranza di guarigione, che ha dolori terribili, che soffre insopportabilmente tanto da cercare come soluzione il termine della propria esistenza.

Sulle richieste dei malati, secondo la norma predisposta dalla maggioranza, deciderà una commissione di nomina governativa con tempi lunghi, con modalità che privilegeranno le cure palliative alla somministrazione dei farmaci per addivenire al proprio fine vita. Potrà fare ricorso all’eutanasia, in sostanza, chi potrà pagarsi un infermiere privato, una assistenza altrettanto tale e un farmaco (costosissimo) che induca la morte senza sofferenza. Del resto, se l’unico interlocutore del governo è la Conferenza Episcopale Italiana, cosa ci si dovrebbe attendere di differente?

Il punto in questione, uno tra i tanti, ma che pare di qualche importanza nel contesto della valutazione etico-politica è il seguente: perché mai il governo della Repubblica, che dovrebbe uniformarsi a princìpi di una vera laicità di Stato, rifacendosi all’egualitarismo anche e soprattutto legale, adotta il punto di vista parziale della Chiesa cattolica là dove si tratta di gestione delle esistenze di tutti e di ciascuno? Noi laici e non credenti abbiamo il diritto o no di vivere e morire come buoni cittadini e non come un qualcosa che non siamo, secondo i dettami di una organizzazione religiosa plurimillenaria che pretende una universalità sotto ogni punto di vista?

Credo che questo diritto debba essere riconosciuto, rivendicato, difeso dallo Stato. Quindi anzitutto dal governo e da tutte le istituzioni. Io non mi sognerei mai di imporre ai cattolici di mettere fine alla loro esistenza, pur se malati e sofferenti, sulla base di un principio di correttezza medica, facendo ricorso all’eutanasia, facendo riferimento ad un metro di valutazione differente da quello della scienza che può aiutare a non sentire tutto il dolore percepibile.

Posso pretendere che il cattolicesimo mi lasci morire, qualora dovesse accadere, come meglio credo per evitare di ricordare l’ultima parte della mia esistenza come soltanto dolore, fatica, spoliazione della vera persona che sono stato, trasfigurata dalla sofferenza e ridotta ad uno stato magari anche larvale? Bisogna che qualcuno della destra arrivi a patire le pene dell’inferno anche in questo frangente perché capiscano di cosa veramente si tratta? Nessuno di noi laici, che sostiene l’eutanasia ha in mente di farne un metodo di ricorso facile al fine vita. Anzi.

Ma deve poter essere un diritto di tutte e tutti. La scelta spetterà alla singola persona che è l’unica, vera proprietaria del proprio essere in quanto tale, della propria esistenza e anche della propria inesistenza. Il tema è spinoso non tanto perché tratta della vita e della morte, quanto perché mette in discussione i precetti assoluti della Chiesa cattolica, della religione in senso più lato, sull’affidamento della vita da parte di Dio all’essere umano. Se l’uomo, la donna, possono decidere della propria esistenza, i cattolici dovranno riscrivere parte della loro dottrina in merito.

Visti i precedenti, saranno in grado di farlo. Nulla è più resiliente di una invenzione che è adattabile a piacere ai contesti, ai tempi, alle mode, ai pensieri che si rivoluzionano. Ma intanto c’è gente che soffre: a causa dello Stato tutt’altro che laico e nel nome di Dio…

MARCO SFERINI

3 luglio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria 

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