Scandalosamente contrarie alla morale del loro tempo, tutta casa, chiesa, trono ed altare, le “Operette morali” di Giacomo Leopardi sono una miniera quasi inesauribile di ispirazione per comporre continuamente una critica nei confronti dell’esistenza più che dell’esistente: la vita è senza un senso preciso, determinato, ma non si può certo trascurare il fatto che, se lo è, non di meno può esserlo l’intero contesto dell’essere, quindi dell’esserci.
Partiamo da qui, per (s)ragionare insieme dell’amore, del sentimento tra i sentimenti o, se vogliamo, di quella particolare felicità di cui ognuno di noi vorrebbe essere portatore per dirsi, appunto, lieto, calmo nell’animo, in piena (o quasi) sintonia col resto che lo circonda. Nel “Dialogo di un Fisico e di un Metafisico“, la speculazione filosofica raggiunge un certo apice. Non glielo si può proprio negare, anche se i critici hanno fatto a gara per sommergere gli scritti leopardiani con le migliori (quindi peggiori) infamie declassanti.
Qui il mito utilizzato dal giovane recanatese, come elemento di strutturazione delle proprie dialoganti figure che ci dicono il suo pensiero nel mentre raggiunge il livello della disputa ellenica tra aria, terra e mare nella furia degli elementi che imperversano (fuoco, acqua, venti di ogni tipo…), lascia il posto al punto e contrappunto tipico dell’accademismo. Tanto che il Fisico è lo scienziato che dimostra partendo, nemmeno a dirlo, dai fatti naturali, dall’esperienza, dall’empirismo oggettivo, mentre il Metafisico è l’oltretutto verso un oltretomba di cui nulla sa, di cui vorrebbe sapere.
Si riverbera nelle paginette del dialogo anche l’indagine filosofica, ma soprattutto vi si legge il tratto per niente celato della critica ad una ragione che pure si apprezza ma che Leopardi valuta un po’ parmenideianamente come insufficiente per comprendere la realtà, a risolvere l’atavicissima «contraddizione evidente e innegabile dell’ordine delle cose e nel modo dell’esistenza, contraddizione spaventevole, ma per ciò non men vera». E, dunque, per ritornare al presupposto iniziale circa l’amore, che posto ha in tutto questo?
Proviamo a gettare un po’ di luce in questo mistero non voluto. L’amore è Ἔρως (Eros), ma in quanto desiderio di fisicità, di attrazione carnale, è sinonimo di attrazione, di avvicinamento al bello, ad un principio estetico della voglia dell’altro o dell’altra. In senso molto più lato, quindi, Eros è il principio del desiderio della felicità che quindi alla base dell’accettazione dell’esistenza, della vita in quanto tale. Non c’è ragione di vivere senza l’amore, senza il desiderio, senza l’attrazione verso ciò che ci circonda.
Se tutto ci respinge, ci regala soltanto inquietudine, disagio, antinomia rispetto a ciò che siamo, vogliamo essere e non riusciamo ad essere, non ci potrà essere nessuna afferenza alla felicità e, quindi, la vita non avrà uno scopo oltre a non avere un senso proprio e propriamente dicibile ed esprimibile. Il Fisico di Leopardi, però, scopre l’arte del vivere a lungo, della vita quasi eterna. Meriterebbe il Premio Nobel o, forse, la gratitudine eterna chi potesse avere le qualità scientifiche per vincere la morte e donare ad ogni essere vivente l’imperiturità.
Ma il Metafisico obietta ripetutamente le ragioni della sua, per usare un eufemismo, non contentezza della scoperta fatta: «Perché se la vita non è felice, che fino a ora non è stata, meglio ci torna averla breve che lunga». Il Fisico non può che replicare sulla base della razionalità e dell’esperienza che, per quanto da lui osservato e direttamente vissuto, ognuno vuole vivere in eterno e nessuno vorrebbe morire. Perché – questa è la frase che spesso ci diciamo vicendevolmente senza badarle troppo… – tutti noi “amiamo la vita“.
L’erotismo esistenziale, dunque, è il desiderio del vivere, l’anelare a non cessare di respirare, non consumarsi nel fisico e nella mente per essere sempre in grado di ragionare, di provare tutte le emozioni e le sensazioni. Ma proprio tutte? Leopardi sostiene, nel dialogo in questione, in fondo si ama non tanto la vita quanto la felicità che può contenere ed esprimere e, più ancora, la propria felicità. La nostra.
Scopo dell’esistenza è essere felici, dunque. Ma se la vita è invivibile, in quanto non ha un senso e non riusciamo a risolverla, come si può essere pertanto felici, come si può concretamente amare ed essere amati? L’immortalità – suggerisce Leopardi – veniva a noia persino agli dei greci, figuriamoci se non può essere un elemento di contrasto con la finitudine fisica e mentale dell’essere autocosciente umano. C’è, nel vivere, un progressivo acquisire quell’esperienza che connota il tempo, che ci fa dire: ora capisco molte cose che prima non comprendevo.
Ad una metà del cammino, dantescamente parlando, o ci si ritrova nella selva oscura e si vaga negli abissi e per sempiterni calli, oppure si accetta, senza Dio, senza demoni, senza immaginazioni consolatorie (o dannanti) il termine dell’esistenza e il fatto che la felicità consti di brevi attimi, non di una continuità senza soluzione: si può provare la felicità, ma non si può essere felici. Leopardi vorrebbe che il Fisico trovasse la chiave di volta di un’altra scoperta: vivere sì in eterno (per quanto il concetto sfugga alla nostra mente…) ma vivere più felicemente e non dover subire ancora sofferenze.
Troppe pretese? Può darsi, ma è umanamente comprensibile (e perché mai poi non dovrebbe essere quindi anche giusto…) aspirare a un esserci, heideggerianamente parlando nel senso di stare qui ed ora nel mondo, che abbia come caratteristica primaria la qualità dell’esistenza, una volta data per scontata la non-quantità (visto che l’eterno non è misurabile). L’amore per la vita è, quindi, amore per la felicità che ci riguarda e che, in un contesto relazionale, diviene dunque amore anche per gli altri e desiderio erotico.
Ne stiamo trattando prescindendo dai sessi perché, è forse scontato dirlo, la narrazione riguarda il rapporto dell’amore per la felicità e noi medesimi piuttosto che la carnalità in senso stretto. Ma non c’è nessunissimo dubbio sul fatto che il desiderio sia parte fondante della felicità e che, dunque, quando parliamo di amore per la vita, parliamo di amore ispirato da un desiderio forte per una persona, per un essere vivente che consegna all’esistenza un senso. Quante volte si è sentito dire: «Senza te non posso vivere, nulla ha senso!».
La frase può apparire banalissima e degna delle migliori (o peggiori, dipende dai gusti…) vecchie telenovelas e nuove moderne soap opera. Ma c’è un fondo di verità: l’esistenza assume il connotato della vita da poter vivere nel momento in cui c’è uno scopo per ripetere ogni giorno anche i più stancanti ritmi abitudinari, delle sorte di meccanicismi indotti dal languido seguire di un’umanità che – diceva Carmelo Bene – così «si fa tanto per fare». Del resto l’amore, ci insegna Platone, è una tensione che riguarda la separazione.
Si ama (forse) di più quando si è lontani, perché si desidera: ecco che la presenza di Eros si fa sentire, si manifesta nella voglia dell’altro. Differentemente diventando, a volte, in mancanza di una persona da amare o di una cosa da desiderare ardentemente, “voglia della voglia” scivola nel porno, nell’irraggiungibile, nel volo che non finisce e che diviene angoscia, ansia di una prestazione che non si può nemmeno lontanamente soddisfare. L’amore, invece, è raggiungibile nel momento in cui produce la felicità attesa.
Se per noi la felicità è la vita insieme, allora quello è l’amore. Se invece lo è l’essere un pittore di chiara fama, allora quello sarà un vero amore. Non certamente l’unico, per antonomasia e per esclusione quindi di altri modi di amare ed essere amati: un amore tra pochi o anche tra tanti. Platone suggerisce una ricerca infinita dell’amore: perché un continuo desiderare la compenetrabilità con l’altro (o l’altra) da noi. Paradossale: per figurarsi come Eros, come desiderio costante e incessante, l’amore si manifesta proprio in assenza dell’oggetto del desiderio.
Se ne potrebbe dedurre che Leopardi ha ragione: la felicità è irraggiungibile, dunque anche l’amore lo è e, quindi, il prolungamento dell’esistenza o l’eternità della vita somigliano quasi ad un cinico gioco al rialzo delle sofferenze. La favola degli androgini, che incutono timore persino al padre degli dei, rimette in gioco da migliaia di anni il punto della continua ricerca della nostra metà. Non ci sentiamo mai del tutto completi quando stiamo – si dice – “da soli con noi stessi“.
L’erotismo viene ad essere quindi un soggetto di un esistenza che si situa a metà tra conoscenza e misconoscenza. In questa sorta di limbo, troppe volte l’amore finisce con l’essere un oggetto del dovere, della convenzione, del tradizionale, del consueto e non, invece, uno slancio di vitalità che proviene dall’istintiva tensione animale (e quindi umana) a provare, a verificare le proprie sensazioni in rapporto anche con sé stessi ma, soprattutto, con gli altri nostri simili. Nulla a che fare col concetto di amore che ha Kant: l’amore pratico, ossia il rispetto della legge morale e della dignità di ciascuno.
L’amore invece singolarissimo diviene qualcosa di patologico e sfocia nell’egoismo che, così declinato, somiglia quindi molto ad una riproduzione di carattere edonistico: piacersi tanto da non riuscire più a distinguere il piacere fuori dai nostri confini mentali e materiali, oltre la nostra visione e contemplazione del mondo che ci sta intorno e oltre la superficie della nostra epidermide. L’amore platonico, non c’è nessun dubbio, è molto più intrigante: è l’andare verso il bello, il piacevole.
Saggezza e bellezza collimano in Platone e si rispecchiano in una ricerca costante della perfettibilità che trova un pertugio minuscolo da cui passare per eternarsi, per non rimanere vincolata al presente ed essere quasi senza-tempo. Il Fisico leopardiano, che ha in mano la chiave di volta di questa eternità soltanto accarezzabile con la timidezza di un pensiero mesto, sembra avere occhi solo per l’infinitudine dell’esistenza, per un amore quindi che le corrisponda e che, per un attimo, prescinda da quella considerazione della natura maligna e perversamente cattiva.
Se davvero si potesse vivere, non in eterno, ma semplicemente vivere e quindi non morire mai, non avere nemmeno in mente cosa possa essere e voler dire “morte“, è del tutto probabile che tutte le domande qui fatte cadrebbero come foglie secche in autunno. Ma poiché siamo nel tempo, quelle domande restano e rimarranno (speriamo di essere smentiti) senza mai una risposta.
MARCO SFERINI
15 giugno 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria