Il Disegno di Legge 1660, appena approvato dalla Camera dei Deputati, è la fisiognomica rappresentazione del volto atavico della destra estrema di governo: securitarismo, repressione del dissenso, contenimento delle proteste entro un perimetro oltre il quale c’è soltanto minaccia alla propria legittima manifestazione di contrarietà a ciò che il potere (costituzionale) fa, lo spettro di anni e anni di galera.
Fascisti e neofascisti, privi di una cultura dialettica tra le parti diverse, se non opposte, sono sempre stati inadeguati al governo della nazione anche per questi motivi: la loro incapacità di contemplare una opposizione alle loro idee e alle loro politiche non è solamente la pietra angolare di un autoritarimo che, soprattutto oggi, si esprime in modi differenti, ma si esprime; prima di tutto è il tratto distintivo che unisce il passato col presente e tenta di proiettarlo nel futuro.
Il DDL 1660 risulta così quel concentrato di pulsioni manganellatrici che vengono aggiornate e adattate ai tempi: non si userà più l’olio di ricino, nemmeno il confino e tanto meno ci si vestirà in orbace, ma l’essere di destra senza rinnegare e senza restaurare vuol dire prendere ispirazione dal Ventennio (e dall’intera parabola ascendente e discendete del fascismo mussoliniano) per mutare, lentamente, la Costituzione della Repubblica e questa stessa in altro da sé stesse.
Se collochiamo tutto quello che questo Disegno di legge contine nell’ipotesi del premierato e dell’autonomia differenziata, quindi un Paese in cui i privilegi scansano i veri bisogni di larga parte della popolazione, ne avremo un’Italia estremamente diversa rispetto a quella che la Carta del 1948 esprime e senza interpretazioni di sorta. Ma, più ancora, è pericolosa l’istillazione del concetto più generale per cui alle proteste si risponde con la forza.
Se soltanto la forza, che è monopolio di per sé – secondo il diritto – dello Stato, diviene il metro con cui si valutano le azioni dei cittadini, la loro organizzazione per indirizzare la politica della nazione in un determinato viatico, piuttosto che in un altro, se soltanto questo è il termine di paragone che si stabilisce tra ordine e disordine, sarà altrettanto semplice e semplicistico formulare un parallelismo uguale e contrario tra chi sta dalla parte della Legge e chi diviene, quindi, un “fuorilegge“.
A tutto questo possiamo ulteriormente sommare il disprezzo per il potere magistruale mostrato in oltre venti anni di berlusconismo e nelle esperienze giallo-verdi prima e nerissime oggi. Le tinte fosche si sommano in un quadro complessivo che mostra una stretta attualità dominata da un revanchismo del culturame di una destra che tenta la rivincita tardomissina sui presupposti dell’arco costituzionale. E lo fa anche in questo modo: prendendo sagacemente spunto dal disagio sociale e iniettando all’elettorato una buona dose di qualunquismo.
Il DDL 1660 cosa contiene? Questo: il blocco stradale e quindi gli scioperi diventano reato penale con condanne fino a due anni di carcere; le proteste in carcere o nei centri di permanenza per i rimpatri possono essere punite col carcere fino a venti anni; alla stessa pena massima soggiace chi viene giudicato pericoloso nel momento in cui manifesta contro le grandi opere; persino la “propaganda” delle lotte è punibile fino a sei anni, essendo considerata “terrorismo della parola“; inoltre, carcere fino a sette anni per chi occupa una casa sfitta o solidarizza con le occupazioni.
Ed ancora: chi fa resistenza attiva contro le forze dell’ordine rischia fino a quindici anni di galera; chi, come il mahatma Ghandi faceva resistenza passiva (che lui comunque non valutava tale) può finire dietro le sbarre per quattro anni (…che nemmeno gli occupanti britannici contro il movimento nonviolento indiano…). Seguono poi una serie di nuove norme sulla detenzione delle armi da parte di Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza: anche al di fuori del loro lavoro, potranno detenere una seconda arma, considerata “personale“.
Poi il Disegno di legge entra nello specifico delle carceri e del rapporto tra le detenute e i detenuti nei confronti delle isituzioni penitenziarie: galera immediata anche per le madri incinte o con figli di età inferiore a un anno; e si vieta agli immigrati senza permesso di soggiorno finanche l’uso del cellulare, vincolando l’acquisto della SIM al possesso del permesso di soggiorno.
Sono tredici nuovi reati, con altrettante pene che si scagliano contro i più deboli di questa società (chi non possiede una casa, chi fugge dai propri paesi per la disperazione delle guerre, della fame, dell’indigenze a tutto tondo, chi si trova in carcere…) considerati quindi esseri anche umani ma di secondo grado, verso i quali nutrire un certo disprezzo anticipatorio: per cui, la società si erge a giudice delle loro azioni e, se l’azione di una minoranza può dare fastidio, per esempio, agli interessi di chi vuole edificare le grandi opere (con il beneplacito del governo), la si mette a tacere.
Con la brutalità della forza, con il paventare anni e anni di carcere, spese processuali, discriminazioni di ogni tipo. Il potere qui non è più costituzionalmente concepito come un punto di incontro tra rappresentanti e rappresentati, tra istituzioni e popolo: diviene, qualora quest’ultimo decida di non essere in accordo anche, e giustamente, con leggi che sono opera del Parlamento, di donne e uomini che possono sbagliare e che possono farle anche “incostituzionali“, una sorta di instrumentum regni e, quindi, un mezzo per strumentalizzare idee, persone, cose, fatti.
A chi candidamente afferma che il fascismo non può tornare, perché fa comodo il paragone iperbolico con la riproposizione odierna di un passato oggettivamente non riproponibile in tutto e per tutto nell’oggi, si deve rispondere che questo che stiamo descrivendo è un autoritarismo moderno che vi si ispira, come un Giano Bifronte: una delle teste è rivolta all’ieri lontano nel tempo, più vicino se si ripensa ai programmi del MSI-DN, e l’altra guarda al compromesso del potere per rimanere al potere. Tra ancestralità nera e blu europeo e neoatlantista.
Il processo intentato contro Matteo Salvini per la questione della Open Arms è ancora possibile, come lo sono le parole che qui vengono scritte, perché l’architrave dell’equipollenza dei poteri regge formalmente. Ma regge grazie alla complessità costituzionale che non è eleminabile in poche settimane. Siamo, però, ad oltre due anni di governo Meloni e il peso del tempo inizia a farsi sentire: perché i provvedimenti illiberali da un lato e liberisti dall’altro fanno sempre più il paio e determinano una condizione di asfittissia antidemocratica sempre più preoccupante.
Il DDL 1660 va fermato prima del suo approdo al Senato della Repubblica. Va contrastato con un movimento di massa che mostri e dimostri al governo che non può tutto, che non è il padrone del Paese e che la nazione sono anche tutte e tutti coloro che non hanno votato per Meloni, Salvini e Tajani. E sono, purtroppo divisi, la maggioranza dell’Italia moderna che non si lascia irretire dai crampi feroci di una insoddisfazione truculenta che vede nel diverso da sé il pericolo montante.
A questa destra non appartiene una Costituzione nata dall’antifascismo militante, già vent’anni prima della sua redazione nell’aula di Montecitorio. Una Carta che ci ha, con tutte le storture determinate dai governi che si sono succeduti, fino ad oggi permesso di vivere in una libertà quanto meno civile, ponendo quelle premesse per una uguaglianza sostanziale che toccava essere messa in pratica dall’esecutività del potere e dal Legislatore con la elle maiuscola.
La destra meloniana e salviniana ha provato, e proverà ancora, la mossa della moderna intestazione della Costituzione ad una idea di democrazia sovranista che esalti le priorità nazionali anzitutto. Passo dopo passo, l’Italia si avvia ad essere, se non cacceremo questo governo entro breve, uno Stato orbaniano, in cui è permesso soltanto ciò che è contemplato dal programma del partito di maggioranza relativa che guida il resto della maggioranza. Per questo bisogna aprire delle contraddizioni tanto nella società quanto nell’assetto politico rappresentativo.
Perché soltanto ricostruendo una dialettica fra le forze opposte, la maggioranza delle persone, quindi delle lavoratrici e dei lavoratori, degli studenti e dei pensionati, potrà fare da argine a questa deriva che fa scivolare la democrazia in una democratura e, un domani, in un regime ancora più autoritario, repressivo e coercitivo. Verrà tentata ogni sorta di minimizzazione da parte degli avversari. Si dirà che la stampa e le telvisioni sono ancora libere e che possono dire quello che vogliono.
Peccato che le forze di minoranza e ultraminoranza non vi compaiano quasi mai: prime fra tutte quelle della sinistra di alternativa. Ciò che spaventa è la forza delle ragioni di fatti incontestabili. I numeri parlano chiaro: si spende quattro volte in armamenti e guerre rispetto a quanto si spende per potenziare la sanità e la scuola pubbliche, il sostengo sociale ai più deboli e fragili, le infrastrutture, i territori, il rapporto tra le comunità e questi stessi. Per porre le basi di una vera alternativa, però, l’opposizione deve cambiare passo e registro: non può più permettersi di scimmiottare le politiche liberiste delle destre.
Se la sinistra ha una possibilità di ritornare a governare, deve averla da posizioni di sinistra e non di centro. Non si può solo dire cose di sinistra. Bisogna farle. Quanto meno provarci. Ma se il punto di partenza è il compromesso tra capitale e lavoro, tra impresa e maestranze, tra profitti e salari, la forza dei primi sarà, in tutta oggettività, preponderante rispetto ai secondi. Ed è qui che la sinistra deve riscoprire il valore di un ruolo che ha abbandonato nel nome del governismo e delle compatibilità di sistema.
Le comuniste e i comunisti devono mettersi al servizio di un cambiamento in questo senso: per dare il contributo proprio alla cacciata del governo Meloni e per sostiturlo con un governo progressista. Date le condizioni anche attuali, è comprensibile che questi assunti paiano delle iperboli molto più marcatamente utopiche rispetto all’opposizione al singolo Disegno di Legge 1660. Ma bisogna provarci. Bisogna mettersi all’opera in questa direzione.
Non basta avere ragione. Bisogna inserire le nostre ragioni in un contesto anche difficile da comprendere in tutte le dinamiche che esprime e, anche per parte nostra, essere motivo di contraddizione laddove si riprovi a formare qualcosa di differente dal “campo progressista“. La legge elettorale spinge nella direzione di un nuovo bipolarismo: ne fa le spese per primo, oggi, il centro che Renzi e Calenda avevano provato a costruire come Terzo polo.
Confindustria benedice il governo Meloni, maledice ogni politica ambientalista e si dice convinta che la crescita dell’un percento auspicata dalla Presidente del Consiglio sia effettivamente tale. Economisti tutt’altro che marxisti smentiscono. I soldi ci sono, ma vengono dirottati su voci e capitoli che non permettono di riequilibrare i conti in senso sociale, espandendo la domanda e facendo ripartire una economia italiana su vasta scala.
La saldatura tra padronato e destre di governo è un altro elemento da tenere bene a mente e da non disgiugnere da quanto scritto fino a qui sul processo di mutamento autoritario della Repubblica, obiettivo antico del MSI, riattualizzato oggi dalle forze della maggioranza. Il sovversivismo delle classi dirigenti è tracimante. Proprio come quei fiumi che devastano interi paesi dove non si vede un becco di un quattrino, dove le promesse aleggiano sulle acque melmose che invadono le case, uccidono e si ritirano sempre più lentamente.
Diamo vita fin da ora ad una opposizione di massa al Disegno di Legge 1660, ad ogni altro progetto di repressione e di contenimento della libera espressione di ciascuno e di tutti. Non c’è tempo da perdere.
MARCO SFERINI
20 settembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria