Consapevolezza o meno dell’intenzione: volontà o autoinganno?

C’è chi confonde, filosoficamente parlando, i concetti di “intenzione” e di “intenzionalità“. Comprensibile. Se le si pronuncia c’è una certa, singolare paronomasia. Se le si scrive c’è anche una...

C’è chi confonde, filosoficamente parlando, i concetti di “intenzione” e di “intenzionalità“. Comprensibile. Se le si pronuncia c’è una certa, singolare paronomasia. Se le si scrive c’è anche una sorta di omografia, ma la semantica è differente. Lo stesso si potrebbe dire di altri termini come “volontà” e “volontarismo“, sono simili, ed il secondo deriva – grammaticalmente parlando – sempre dal primo, ma nel prodursi e riprodursi, inevitabilmente, si separano perché appartengono a campi del sapere e dell’essere molto diversi fra loro.

Se intenzione e volontà sono quasi sinonimi, intenzionalità e volontarismo, sempre sul piano della speculazione filosofica, non replicano questa caratteristica. Per comprendere questi affascinanti e rompicapeggianti calembour tocca farsi qualche domanda più precisa o, se vogliamo, diretta e netta nell’esserlo ma oggettivamente destinata a ricevere le più disparate risposte e, quindi, destinata a non trovare, alla fine della fiera, una soluzione. Il quesito rimarrà sospeso, ma il dubbio ci serve per provare a comprendere.

Che cos’è l’intenzione? Partiamo da qui: impossibile non citare colui che viene reputato il fondatore della fenomenologia, Edmund Husserl. Secondo il filosofo e matematico austriaco, l’intenzione è identificabile con la coscienza perché è, proprio etimologicamente parlando, un “tendere” verso qualcosa e non esiste un vuoto della mente (dell'”io“) a tal proposito che, quindi, possa permettere di definire uno “stato di quiete” del pensiero, come del pensarsi e del percepirsi in rapporto diretto, stretto e soprattutto continuo con la realtà.

L’intenzione è il presupposto dell’intenzionalità che è, quindi, l’atto in potenza, l’atto che non è azione e, per dirla con Carmelo Bene, vedremo come «l’azione sia, rispetto all’atto, ciò che consegue logicamente da un motivo». Pur facendo riferimento a due discipline molto differenti fra loro (la fenomenologia filosofica e la “macchina attoriale” che CB era di sé stesso), anche il filosofo e psicologo tedesco Franz Brentano (maestro di Husserl) giunge all’affermazione secondo cui ogni fenomeno della mente (quindi psichico) si trova in una condizione di «in-esistenza» intenzionale in riferimento ad un oggetto.

Cosa significa? Sostanzialmente che gli atti prodotti dall’intenzionalità (quindi dal desiderio di muoversi e muovere in una determinata direzione per voler realizzare un qualcosa) sono la realizzazione dell’intenzione, la sua più vicina prossimità al concreto, a ciò che è nel suo divenire o che è in quanto già divenuto in un determinato tempo, luogo, situazione. Dunque, come scrive Carmelo Bene, c’è un “motivoante-factum, e questo è il punto da cui prende il via l’azione che potremmo assimilare – con tutte le debite differenze da non alterare (nel rapporto tra fenomenologia e “scrittura di scena“).

L’intenzione, dunque, si presenta come uno stato mentale che non necessariamente corrisponde al reale o che è collegabile con un meccanicismo logico e razionale. Ciò che si intende fare non sempre corrisponde poi a ciò che si fa. Si dice, spesso, che molte delle nostre azioni (quindi le conseguenze dei nostri beniani motivi) prescindono dalla nostra volontà, che non volevamo fare questo o quello, che quindi esiste una sorta di “indipendenza” del realizzato da chi lo realizza, perché esiste l'”involontarietà“, se vogliamo la più laicamente banale, semplice e tanto interpretata “colpa” sia sulle scene sia nella vita quotidiana.

In che rapporto stiano l’intenzione e la colpa susseguente non è facile da verificare: tutto sembra essere disposto in una dimensione altamente soggettivistica, per cui stabilire un rapporto di causa-effetto tra i due processi mentali e pratici è piuttosto complesso. Frasi fatte sono: «Io intendevo fare altro!», oppure «Ma non intendevo dire questo!». Qui entra in scena il fra-intendimento, quindi una disallineazione tra il significato intenzionato di un concetto e l’interpretazione che ne da un altro rispetto a noi.

Per comprendere un poco le reali potenzialità dell’intenzione (e dell’intenzionalità come espressione di una certa cultura filosofica del divenire umano e delle relazioni che ne conseguono) è utile riferirsi alla distinzione che Brentano fa tra “stati mentali” (ed emotivi) da quelli puramente “fisici“: ciò serve anzitutto a stabilire che, nella maggior parte dei casi l’intenzione è emozionale, premessa di un anelito. Volere fare ciò che vorrebbe fare ma che non si osa mettere in pratica. I motivi possono essere i più disparati.

L’intenzione è prima di tutto un pensiero che, quindi, diviene emozione e che si può tradurre in una movenza verso la realtà. L’insicurezza che regna, circa il fatto che una intenzione possa divenire concretamente ciò che era nell’ambito esclusivamente psichico, impedisce la determinazione di una realtà oggettiva prima della realtà concreta e materiale. L’intenzione rimane affidata al mondo dell’inconscio, per certi versi, che pare ispirarla dal più profondo, recondito inconsapevole del nostro essere nascosto che fa sì che siamo ciò che siamo ogni giorno della nostra esistenza.

Noi pensiamo di essere noi ma, in realtà, siamo mille altre cose e voci: parliamo per sentito dire nel vero senso della locuzione. Siamo attraversati da pensieri del passato che ereditiamo e riproduciamo. Le nostre intenzioni, quindi, possono, alla luce di ciò, essere davvero liberamente definibili come istintività primordiale di noi stessi? Si può dubitare delle nostre attitudini, di ciò che proviamo, essere quindi in uno stato di dubbio costante che ci percorre incessantemente e che sembra non darci tregua. Ma quando si agisce, è evidente che, a meno di ammissioni di plateali errori o di ripensamenti repentini, l’intenzione era proprio quella.

Intendere, del resto, è in forma di domanda rivolta ad altri una richiesta di chiarimento: «Che cosa intendi affermare?». Siamo nel campo della parola, del verbo, dell’essenza che si manifesta attraverso il significante che attribuisce al significato quello che meglio crede sia attribuibile. In questo senso la realtà che ci si staglia davanti ogni giorno è interpretabile attraverso i sensi che producono l’intenzionalità, l’atto del tendere verso qualcosa che, in fondo, è la definizione etimologica del termine “intenzione“.

Parola e volontà si mescolano qui in un connubio di capacità espressive che, proprio a riguardo del rapporto semantico tra definizione e concetto, stabiliscono un nesso tra il termine “intentio” e l’intrinseca, quasi impalpabile ragione del desiderio di prodursi in un’azione. Nel “Lorenzaccio” di Carmelo Bene c’è proprio l'”intento” primordiale, quella dettata dalla brama della riuscita di un’azione che è rivalsa personale ma anche progetto politico (l’assassinio del tiranno che Tommaso avrebbe definito assolutamente legittimo). A monte vi è un’ideale alto, nobile, da affidare al vindice pugnale.

L’intenzionalità sta a Lorenzaccio (l’atto) come l’oggetto del suo essere costitutivo sta al prodotto del suo dimenticare completamente la ragione del prodursi in questo immediato istante che fa la Storia, quindi all’azione (l’uccisione del despota). Atto e azione, su cui la critica ha fatto divampare i più accesi scontri molto intellettualoidi e molto poco propensi a prendere su di sé la distinzione beniana (critica del “teatro dell’azione“), stanno nell’esatto, molto singolare rapporto in cui si trovano intenzionalità ed intenzione. Se la coscienza per Husserl è, quindi, il tendere verso un qualcosa di specifico, l’atto è appunto l’intenzionalità.

La concretizzazione della volontà che oblia sé stessa nel raggiungimento ottimale del suo scopo, è l’azione che si sostanzia ed esce da quella che, fino ad un momento prima, era, nell’atto (quindi nel soggetto-Lorenzaccio), la piena coscienza, il motivo per cui agire. Per divenire ciò che davvero vuole divenire, l’atto deve prescindere dall’azione, deve prescindere quanto meno dal fine ed essere genericamente inteso come prototipo di qualunque volontà in questa direzione protesa. Lorenzaccio non uccide quel tiranno, ma uccide La Tirannia. L’intenzione è questa, rappresentata, poi, nella realtà materiale dal corpo, dalla fisicità di Alessandro.

Per quanto poco comprensibile possa risultare, visto che parliamo di frazioni temporali di pochi secondi in cui la mente passa dall’intenzionalità manifesta all’intenzione non più tale perché già si invera nell’agito, nel prodotto ultimo (la morte per pugnalata), questa apparente sequela logica di momenti è un turbinio di emotività, di contrasti tali da essere imprevedibile e non meccanicisticamente intesa. La distinzione che Carmelo Bene fa tra atto e azione, e che noi possiamo timidamente associare a intenzionalità ed intenzione (fuoriuscendo per un attimo dall’ambito strettamente filosofico husserliano), non è lana caprina.

Si gioca su un filo di lana, su un sottilissimo crinale la parte di chi intende (soggetto dell’intenzionalità) e ciò verso cui si dirige il tutto (l’oggetto dell’intenzione). Fino a che non viene superato il dubbio, se agire o meno, se liberare o no Firenze dal dispotismo, l’atto-Lorenzaccio è intenzionalità che riproduce molto bene ciò che vuole, ma che forse potrebbe anche non arrivare a realizzarsi: si sa, nelle trame, nei complotti come in guerra nessun piano va mai come deve, come, per l’appunto, è “nelle intenzioni” dei congiurati o dei generali.

Wittgenstein, nel suo “Tractatus Logico-philosophicus” (reperibile in italiano nelle edizioni Feltrinelli) scrive: «Il libero arbitrio consiste nell’impossibilità di conoscere ora azioni future. Noi le potremmo conoscere solo se la causalità fosse una necessità interiore, come quella della conclusione logica. — La connessione di conoscere e conosciuto è quella della necessità logica. (“A sa che p è priva di senso, se p è una tautologia)». Libertà, volontà e causalità. Un trittico niente male e condensato nel difficile quotidiano impiego umano. La volontà – sosteneva Carmelo Bene – non è mai buona. Non per una stigmatizzazione (anti)etica della stessa, quasi irriverente. 

Semmai è un noumeno kantiano: una essenza pensabile ma inconoscibile. Ecco, l’intenzionalità somiglia molto ad una essenza che si va formando nell’intenzione che, a sua volta, si produce nell’azione, ma che alla fine in sé e per sé, proprio perché è soggettivissima, non può che essere tante innumerevoli volte interpretata da finire con l’essere, per l’appunto, ininterpretabile e, quindi, nessuno può affermare di “sapere” che cosa aveva “intenzione di fare” Tizio nei confronti Caio, Sempronio nei confronti di Lucullo. Il punto, ammesso che un punto si possa mettere qui…, è proprio questo: possiamo avere contezza dell’intenzionalità e dell’intenzione?

Entrambe, se possiamo avvicinarle alla coscienza, all’imperscrutabile inconscio di noi stessi, non sfuggono al conformismo del possibile, del realizzabile e ad un’etica che ritiene giusto ciò che può fare ognuno nel rispetto di sé stesso e di tutti e, quindi, finiscono con l’essere imprigionate nel determinismo quasi universalistico: ciò che accade segue delle precise linee di condotta della trasformazione della materia ed è come già inscritto in essa. La libertà, quindi, non esiste. Wittgenstein, infatti, afferma che il libero arbitrio sta nell’inconsapevolezza del futuro.

Se sapessimo ciò che ci accadrà o ciò che noi faremo accadere, non saremo nemmeno più liberi di stare entro i cardini asfittici dei rapporti di causa-effetto che, spesso e volentieri, qualche piccata punta di meccanicismo la hanno e la conservano quasi gelosamente. Ma nulla è mai veramente uguale a sé stesso, in nessun istante dell’esistenza. E poi perché mai dovrebbe esserlo? Il mutamento fa parte della vita cosciente e della morte incosciente, dell’attivo come dell’inerte che è soggetto ed oggetto del cambiamento “chimico” in cui siamo.

L’intenzionalità e l’intenzione non vengono meno a queste “leggi” del possibile. Dovremmo cadere, per sfuggire loro o per viverle differentemente dall’oggi, in quello stato di “abbandono” che sempre CB citava e ri-citava (ma non recitava) spesso. Avere l’incoscienza delle cose, delle persone, dei fatti, di ciò che ci circonda. Ma l’abbandono, come incoscienza della coscienza, è irraggiungibile: perché nel momento in cui ti sei svincolato da ogni legge, da ogni processo logico, da ogni realtà, non te ne avvedi e dunque non puoi esserne consapevole.

In fondo, il destino dell’intenzionalità è un po’ questo: c’è nel momento in cui, divenendo intenzione, smette di esserci. E lo stesso discorso vale per l’intenzione: nell’attimo in cui è riconoscibile già trasfigura e trasmuta in azione. Siamo nel non essere noi stessi, perché siamo un continuo divenire che, per qualche istante, è autoconsapevolezza di sé medesimi. Poi più il niente, come prima che si nascesse. Un tempo in cui nessuno di noi può dire di avere alcuna memoria, alcun ricordo, alcuna immagine.

MARCO SFERINI

8 giugno 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Il portico delle idee

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