Se oggi è possibile andare alle urne su temi come quelli proposti in merito al superamento di tutta una serie di mostri sacri della precarizzazione del lavoro, nonché sull’estensione della cittadinanza a oltre due milioni e mezzo di persone cui questo diritto oggi è precluso, non è solamente perché esiste il diritto di voto in sé e per sé. Ovvio, che è così, ma il voto va riempito di contenuti per avere veramente un senso civile, sociale, politico ed essere, dunque, un vero dovere civico.
Se oggi ci possiamo esprimere contro la precarietà a viso aperto insieme a forze politiche che avevano invece, per lungo tempo, sostenuto le ragioni delle privatizzazioni, del mercatismo a tutto spiano e, quindi, della parcellizzazione contrattuale che tanto ha diviso e tante ingiustizie ha creato con le sue discrepanze, è perché il mantra del precariato, della flessibilità e del lavoro a chiamata è entrato progressivamente in crisi.
Il dogma liberista non si è ancora del tutto infranto, ma mostra primissimi segnali di crepe su cui occorre insistere. Soprattutto nella saldatura tra azione sindacale e politica e, quindi, con un risvolto assolutamente sociale. Con una certa faciloneria da commento social (un tempo si sarebbero chiamate “chiacchiere da bar“, ma erano molto più direttamente serie dei tanti post pubblicati per punto e contrappunto…) si sostiene che c’è una manifesta incoerenza, ad esempio per quanto concerne il PD, nell’aver proposto a suo tempo le peggiori leggi lavoricide e liberiste come il Jobs Act e, oggi, sostenerne in pratica il superamento, l’abolizione.
La contraddizione è stridente e c’è. Nessuno la nega. Ma, proprio perché è evidente, significa che oggi la posizione dei democratici è cambiata rispetto al quadro renziano di un tempo. Così come sono cambiati radicalmente i Cinquestelle a partire dal vero e proprio luogo geopolitico di collocazione. Dalla destra populista delle origini al campo progressista. Bisogna tenere conto di tutti questi mutamenti perché, oggettivamente, riguardano un cambio di passo sovrastrutturale che è diretta espressione delle trasformazioni strutturali del capitalismo moderno.
La virulenza dell’ultraliberismo (quello che Bernie Sanders, molto opportunamente, definisce l’übercapitalism) ha mostrato tutta la sua voglia di accaparramento delle risorse naturali, dell’impoverimento tanto dell’economia propriamente riguardante il micromondo quotidiano di ciascuno, quanto di quella più genericamente intesa come regolatrice dei flussi di ricchezze prodotto e alienati dai produttori ai possessori delle industrie, delle aziende, delle imprese.
La povertà è esponenzialmente aumentata e non per colpa delle migrazioni, ma per la responsabilità diretta del connubio tra necessità liberiste delle classi dominanti e governo del potere in questa direzione: con il sostegno, dunque, alle peggiori forze retrive, conservatrici e reazionarie, capaci di tenere insieme nazionalismi e globalizzazione multipolare, finta socialità delle proprie proposte politiche e fede cieca nel mercato. Qualcuno sostiene, molto enfaticamente, che la precarietà non la si cancella con un referendum. Non è un presupposto aprioristico intoccabile.
Semmai è una giaculatoria imprenditoriale che mira a creare la sensazione diffusa che la precarietà, in fondo, qualche utilità la ha: ma sempre e soltanto per loro, per quelli che un tempo chiamavano (e possiamo anche continuare a chiamarli ora…) “i padroni“. Certo che l’intero mondo della precarizzazione del lavoro non lo si elimina con il referendum, ma si può iniziare a contenere gli effetti nefasti di questa pratica, di questo modo di intendere i rapporti tra proprietà e maestranze, tra il vero datore del lavoro (che per l’appunto è il lavoratore) e il datore di un sempre insufficiente stipendio (che è l’imprenditore).
Obbligare una azienda a chiarire il motivo, ad esporre la causale per cui si assume per meno di 12 mesi un lavoratore, consente di circoscrivere molto il ricorso ai rapporti di breve e di brevissima durata. L’obiezione dei detrattori dei quesiti referendari è pronta: così si impedirà a molti giovani di entrare nel mondo del lavoro, perché si creerà un cortocircuito sulle opportunità di impiego, praticamente scoraggiando le aziende ad assumere se non a tempi non più propriamente determinatamente così brevi.
Ma anche questa obiezione è simile alla teorizzazione, che decenni fa era sostenuta un po’ da tutti, tanto nel centrodestra quanto nel centrosinistra (con alcune nobili eccezioni), secondo cui proprio la precarietà avrebbe aperto una stagione di espansione del mondo lavorativo e di opportunità davvero incredibili. Dopo trent’anni circa, i risultati sono sotto gli occhi di tutte e tutti: l’incertezza proprio delle generazioni più giovani è ai massimi livelli e si riflette sull’impossibilità di dare seguito a progetti di vita stabili.
Precarietà non avrebbe mai dovuto suonare benevolmente in quanto a garanzia di diritti sociali, di tutele crescenti per lavoratrici e lavoratori già abilitati nei loro ambiti produttivi e, tanto meno, per tutto quel vasto mondo di disoccupazione e di non lavoro che non viene ridimensionato se non conteggiando, appunto, anche il lavoro di un singolo giorno e spacciandolo come “nuova occupazione“. Se, e non è questo il caso, la precarietà avesse avuto in nuce una disposizione positiva per essere utilizzata come prologo di espansione del mercato del lavoro, l’abuso che ne è stato fatto da parte delle imprese ha dato seguito ad un effetto assolutamente contrario.
Ma, in realtà, la mitizzazione del precariato è stata utile soltanto all’arricchimento della nuova classe dirigente economica che si batteva, nel riflusso del liberismo moderno, per rimanere a galla mentre lo scontro tra i nuovi poli emergenti si mostrava in tutta la sua capacità destabilizzatrice: in particolare per l’asse del mondo occidentale, per Stati Uniti d’America ed Europa. Se al referendum vinceranno i SÌ, i contratti di un solo giorno non potranno più essere stipulati.
Non si tratta di eccezioni: l’impiego di questa precarizzazione estremissima è molto più frequente di quello che si possa immaginare. Quante lavoratrici e quanti lavoratori sono assunti oggi con contratti da un mese rinnovati anche fino a dieci volte? Tanti, tantissimi. Se si può evitare tutto questo, perché non votare? Perché non dire cinque volte SÌ e, per una volta, dopo tanti anni, fare davvero una azione collettiva di lotta di classe contro il padronato, contro la sua arroganza, contro la sua prepotenza?
Perché mai se un lavoratore, in una azienda con più di 15 dipendenti, viene licenziato ingiustamente non deve essere reintegrato nella sua mansione, nel suo posto in fabbrica o in ufficio? Il Jobs Act aveva eliminato questa possibilità, prevista dall’articolo 18 della Legge 300 (lo “Statuto dei lavoratori“). Oggi possiamo abolire quella disposizione renziana e riportare un minimo di equità quando si è innanzi ad un allontanamento non corretto da parte dell’azienda, quindi per motivi che esulano le responsabilità del singolo operaio o impiegato.
La precarietà non è stata soltanto (si fa per dire…) una ossessione strutturale del capitalismo di nuova generazione, per fare più profitti, per incamerare sempre più dividendi aziendali. Si è trattato di un progetto di più lungo corso. La ristrutturazione liberista del sistema ha riguardato ogni singolo aspetto della vita quotidiana dei moderni sfruttati: la rimodulazione dei tempi, la formulazione di nuovi bisogni fittizi, una spinta ulteriore sul fronte di un consumismo iperaccelerato…
Il voto di domenica e lunedì non cancellerà tutte le ingiustizie di questi ultimi trenta, quarant’anni, ma potrà aprire la strada ad una riconsiderazione profonda, tanto a sinistra quanto nell’insieme della società italiana, in merito al lavoro in quanto tale, ripensandolo a partire dagli interessi sociali e non soltanto da quelli delle imprese. Ci sono sindacati e sindacalisti che sostengono invece il NO ai quesiti: lo fanno con le stesse argomentazioni delle destre e della Confindustria. Il timore maggiore che emerge in questi frangenti è proprio la rottura del contenitore di dogmatico cristallo della precarietà.
Se il mercato può avere torto, allora vuol dire che i lavoratori possono avere ragione. Chi invita ad una sorta di parificazione, nella produzione della ricchezza nazionale, tra mondo del lavoro e mondo delle imprese (quindi tra due interessi contrapposti), fa una operazione di revisionismo (anti)sociale, esattamente come chi invita alla pacificazione storica tenta di mettere sullo stesso piano fascisti repubblichini e partigiani. Non può esservi né pace sociale né pacificazione nazionale su questi presupposti.
Rimettere il lavoro al centro dell’agire politico vuol dire riproporre l’essenza costituzionale della comunità intera, del popolo nel suo insieme, della Nazione con la enne maiuscola (un po’ giacobinamente intesa). Rimettere il mercato a variabile dipendente di sé stesso, e non di tutto e di tutti, è precisamente il subordinarlo all’interesse pubblico. Ciò che oggi non è e che invece deve poter tornare ad essere. I referendum sono questa possibilità. Il quorum è raggiungibile, la vittoria dei SÌ è concretizzabile.
Se così sarà, nonostante la presenza del governo Meloni, il giorno dopo il voto l’Italia potrà vantare ancora degli anticorpi sociali e civili da mostrare a sé stessa, con un certo orgoglio, all’Europa e al mondo. Urbi et orbi. Se invece prevarrà l’astensionismo, si dovranno cercare altre strade, di lotta sociale, partendo da un aumento della partecipazione civile per contrastare la Legge Sicurezza, per evitare di cadere in un autoritarismo che neghi, a quel punto, ancora più diritti alle lavoratrici e ai lavoratori, nonché al resto della società italiana.
La posta in gioco è tanta. Non sono solo cinque referendum: sono un investimento sul futuro delle giovani generazioni e, non di meno, sul nostro attuale, faticoso, incespicante, logoro presente.
MARCO SFERINI
7 giugno 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria