Il «voto è la nostra rivolta» è lo slogan della campagna referendaria. È il voto e il suo senso oltre. È lotta la campagna referendaria, con i suoi incontri di approfondimento, i banchetti nelle piazze, i volantini nei mercati, che esprimono partecipazione, creano consapevolezza e innestano vitalità nel terreno inaridito di una democrazia in scivolamento verso l’autocrazia. È ribellione allo stato di cose, agitare i principi costituzionali sottesi ai quesiti: dignità, emancipazione, partecipazione.
Oltre i voti, conta il rinvigorimento della democrazia che la campagna attiva; conta porre sul terreno materiale del possibile parole – dignità, emancipazione, partecipazione – che si vorrebbero relegate nel mondo delle illusioni di un iperuranio senza speranza; conta riportare sulla scena l’esistenza del conflitto e agire il conflitto.
Il voto in sé è strumento di democrazia, una delle forme della democrazia. Sottolineo una, perché nell’era dell’oscuramento autoritario del dissenso – e nei giorni della conversione del decreto legge sicurezza – è necessario ribadire che la democrazia vive attraverso l’esercizio dei diritti, il pensiero critico e le mobilitazioni sociali; nonché – e qui entra in gioco il lavoro – la declinazione come sociale.
Come strumento di democrazia dovrebbe essere “spinto” dalle istituzioni e non oggetto di inviti all’astensione e di un pesante “silenzio di Stato”.
Il referendum stimola e critica le istituzioni, in senso contro-maggioritario; è una forma di controllo popolare (Terracini); è strumento di raccordo fra società e circuito politico-rappresentativo: costringe i partiti «a un maggiore contatto col popolo per problemi concreti» (Mortati). Nell’odierno interregno contrassegnato da asfissia, esautoramento, incapacità, della rappresentanza e dei partiti, di connettere società e istituzioni, di dare risposte a rivendicazioni, problemi e conflitti che attraversano la società, esercita una funzione di supplenza.
Non solo. Il referendum, se e quando nasce dal basso – altro discorso sono i pronunciamenti plebiscitari – ha un suo valore a prescindere dal rapporto con la rappresentanza, esprime «effettiva partecipazione» (art. 3 della Costituzione). Lungi dalla sirena populista del «dare la voce al popolo» è concretizzazione di sovranità popolare; è partecipazione.
La partecipazione della Costituzione è esigente, richiede persone liberate e libere nello spazio politico, come in quelli economico e sociale: ed è il lavoro il trait d’union tra i vari profili della democrazia. Un lavoro degno, quella dignità che costruisce il senso del lavoro come emancipazione e segna la distanza dal lavoro come merce; in coerenza con la Costituzione dalla parte dei lavoratori, non dell’estrazione di profitto. È questo lavoro, strutturalmente unito a dignità ed emancipazione, a costituire il fondamento della Repubblica.
I quattro quesiti sul lavoro, nel rivendicare la dignità, nella tutela contro i licenziamenti come nella sicurezza sul lavoro e nel rifiuto della precarietà, sono un atto di ribellione contro i tempi moderni della deregolamentazione, del contratto aziendale, dei subappalti, dei diritti flessibili, della falsa libertà delle partite Iva e della schiavitù delle piattaforme digitali.
Ancora: ragionare di lavoro dignitoso, sicuro, emancipante, ci ricorda come intorno al lavoro vi sia un conflitto, che non coincidono gli interessi del lavoratore e gli interessi del capitale, che esiste una lotta di classe condotta dall’alto. E il conflitto – contro le velleità odierne di negarlo, neutralizzarlo, sterilizzarlo – è elemento strutturale della democrazia. Anche qui sta il senso della Repubblica fondata sul lavoro.
L’orizzonte dei diritti, della dignità, della partecipazione connette lavoro e cittadinanza. La cittadinanza evoca liberazione ed eguaglianza; indica la compartecipazione a una comunità di diritti e doveri. Ma la cittadinanza è anche barriera tra un “noi” e un “loro”; è lo status giuridico che trasfigura i diritti della persona in diritti del cittadino; spezza l’universalità dei diritti; perimetra l’esclusione. E allora si apre il terreno di discriminazione dell’altro, dello straniero, sino alla sua disumanizzazione, all’esternalizzazione delle frontiere, alla delocalizzazione della tortura e ai confini che uccidono.
Il referendum sulla cittadinanza è un piccolo passo, molto piccolo: la cittadinanza resta concessione e non diritto, l’universalità dei diritti non vince sulla cittadinanza; ma è un segnale controcorrente, nell’era del nazionalismo etno-identitario e del genocidio degli “eccedenti”.
Cinque referendum che riportano sulla scena quattro parole: dignità, emancipazione partecipazione, conflitto, parole della democrazia, parole per una lotta quotidiana, per aprire crepe nell’esistente, per attivare anticorpi contro l’infestazione neoliberista, verso un altro e un oltre possibile.
ALESSANDRA ALGOSTINO
foto: particolare dell’istantanea tratta dalla pagina Facebook dello SPI CGIL di Varese