Chef Rubio: «Da Gaza una grande lezione di dignità umana»

Palestina. Intervista a Chef Rubio, in questi giorni nella Striscia di Gaza per contribuire al Gaza Freestyle Festival

Decine di italiani sono entrati due giorni fa a Gaza e lavoreranno divisi in sei gruppi: calcio, arte, donne, circo, skate e media. Ogni gruppo realizzerà un progetto con associazioni locali, crew e scuole superiori in tutta Gaza, da Jabaliya nel nord a Rafah sul confine con l’Egitto. Parliamo dell’edizione 2019 del Gaza Freestyle, il festival nato nel 2014 che collabora con il Centro Italiano di Scambio Culturale Vittorio Arrigoni-Vik. Un programma intenso di cultura, sport, arte e divertimento per la popolazione di Gaza che si abbina al progetto di riqualificazione sociale ed ambientale Green Hopes nelle zone di Al Nada, Al Isba e Al Awada, vicine a Jabalia. In cantiere c’è la costruzione di un tendone da circo, varie aree sportive e il completamento di uno skatepark. A dare una mano al Gaza Freestyle quest’anno c’è anche Gabriele Rubini, più noto come Chef Rubio. Dopo aver messo fine al suo contratto con Discovery e ad altri programmi televisivi che lo hanno reso celebre, Chef Rubio ha scelto di impegnarsi nell’umanitario a sostegno del popolo palestinese. Lo abbiamo intervistato ieri mentre con il resto della carovana italiana si accingeva ad andare a Rafah.

Chef Rubio, lei è a Gaza per dare un contributo al Gaza Freestyle Festival. Cosa farà nei prossimi giorni.
Il Freestyle lo sto scoprendo poco alla volta. Assieme ad altri volontari che, come me, sono qui per la prima volta, sto preparando tutto ciò che serve per garantire la serietà e la professionalità dei laboratori che svolgeranno i funamboli, clown, skater, i calciatori e altri ancora, per i palestinesi, ragazzi e ragazze, che prenderanno parte alle classi. Così da arrivare al giorno finale del Festival in cui i ragazzi e le ragazze potranno dimostrare ciò che hanno appreso da professionisti che si sono resi disponibili per un popolo che ha infinite difficoltà. Perciò mi considero bassa manovalanza a disposizione dei gruppi di lavoro. Comunque rimarrò a Gaza di più rispetto agli altri componenti della carovana, un mese almeno. Più avanti conto di realizzare una sorta di reportage sulla base di ciò che vedranno i miei occhi in questa terra.

L’impegno a Gaza non prevede attività legate alla sua professione?
Se ne parlerà quando finirà il Freestyle, le nostre forze sono contate e ora dobbiamo fare tutti qualcosa per garantire la buona riuscita del Festival. Dopo certo non mancherò di conoscere la cucina palestinese, in particolare quella di Gaza, e intendo far tesoro delle preparazioni culinarie locali. I ragazzi del posto mi dicono che i falafel di Gaza sono i più buoni al mondo e non aspetto altro che di rendermene conto di persona.

A Gaza avrà modo di accumulare esperienze e conoscenze. Come pensa di usarle una volta rientrato in Italia?
Sulla base del materiale che raccoglierò, proverò a spiegare un quadro (di Gaza) che di solito i media italiani non fanno. Vorrei raccontare il popolo di Gaza per quello che è, un popolo estremamente dignitoso, ben diverso da quello rappresentato dai mezzi d’informazione attraverso resoconti manipolati. Spero inoltre di poter fornire informazioni utili agli operatori umanitari che vorrebbero venire qui a Gaza ma credono che non sia possibile arrivarci.

Lei è da poco a Gaza, qual è la sua prima impressione.
Ero già stato a Ramallah (in Cisgiordania, ndr) e mi sono innamorato subito del popolo palestinese. Poi sulla mia strada ho incontrato diversi palestinesi e sono riuscito a restare in contatto con loro in maniera stabile. Qui a Gaza ho notato subito la vitalità della gente, la voglia di urlare il proprio desiderio di libertà. La popolazione di Gaza, nonostante le guerre, non smette di sognare una vita libera e ci sta dando una grande lezione di dignità umana. I giovani hanno saputo trasformare le macerie in palcoscenici dove rappresentare ciò che sono bravi a fare, nell’arte e non solo.

Pensa di tornare a Gaza in futuro?
Di solito vivo le esperienze per quello che sono. Però so riconoscere un posto amico, un posto in cui penso di poter dare qualcosa e da cui prendere tanto, quindi conto di tornare, al netto degli accessi che mi saranno consentiti dalle forze di occupazione. Per me e per tutti è importante comprendere che non siamo solo noi che andiamo a fare volontariato ma sono soprattutto loro (i palestinesi, ndr) che ci trasferiscono emozioni ed umanità.

MICHELE GIORGIO

da il manifesto.it

foto: screenshot

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EsteriPalestina e Israele

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