Se ne sono andati tutti e tre mentre il mondo precipita sempre più in una spirale di violenza, di odio, di sopraffazione, di ritenzione dei diritti umani, civili e sociali. Se ne sono andati dopo aver passato una intera esistenza al servizio della libertà, dell’indipendenza dei popoli, delle coscienze, per la giustizia intesa nel suo più alto zenit possibile: quello della fratellanza, dell’uguaglianza, del principio di rispetto delle differenze di ciascuno e di tutti.
Hanno messo da parte, spesso e volentieri, odio, rancore e rabbia: tre elementi di inquinamento di un ottimismo che, invece, sono riusciti a conservare associandolo sempre ad un amore incondizionato nei confronti dell’intera umanità, del mondo in una proiezione di un qualche futuro oggi molto difficile da intravedere nei contorni della pace e della vicendevolezza.
Lucio Manisco, Pepe Mujica e Alì Rashid, per quanto magari possano essere sconosciuti ai più in questa nostra società veloce, massmediaticamente propensa ad esaltare i pettegolezzi, ad incensare incessantemente il potere, a non spiacere mai a chi ha le redini dei grandi cordoni delle borse, erano, sono e saranno figure di primo piano di un momento storico che non è finito e che sta involvendo rispetto ad una espansione delle libertà che sembrava avesse avuto una qualche ragione d’essere a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta del secolo breve.
Un giornalista, un tupamaros, un palestinese. Tre storie molto diverse ma accomunate dal sentimento di riscossa dei più deboli, degli oppressi, dei proletari classicamente intesi, dei senza terra, dei privati di ogni identità nel nome della democrazia di un fin troppo evidente intento imperialista tanto in America Latina quanto in Medio Oriente. Da quella che Lucio Manisco amava definire come “grande repubblica stellata” (con un piglio ironico tutt’altro che scontato) al sud del sud del mondo, da cui arrivava anche papa Francesco, per approdare nella martoriata Palestina.
Il fil rouge che unisce queste esistente è lo stesso che ha unito le lotte per le libertà civili e sociali negli Stati Uniti a quelle per il diritto alla semplice esistenza di popoli nativi cui veniva negato proprio il diritto ad essere tali, ad essere pienamente ciò che intendevano essere nonostante il capitalismo liberista si imponesse come regime regolatore di una serie di interessi del nord del mondo a scapito del sud, mettendo a repentaglio gli equilibri sociali e, in un contesto più ampio, quelli propriamente naturali.
Della Palestina nemmeno a parlarne: Alì Rashid se ne va nel più buio dei momenti, in una Nakba riemersa dalle tenebre di una storia in cui il suo popolo non ha mai avuto un briciolo di riconoscimento, di giustizia, di sincera collaborazione da parte di governi e Stati che, pur nell’ambito delle più nobili intenzioni, hanno letto dietro alla questione palestinese anche quella israeliana e sono stati bene attenti a non spiacere all’amico americano, a chi, al di là dell’oceano, gestiva la partita del consolidamento dello Stato ebraico come pedina nello scacchiere mediorientale.
Tre figure di intellettuali, di liberi pensatori sarebbe meglio definirli: critici senza dimenticare mai che anche il dubbio merita un po’ di riposo ogni tanto e che a qualche certezza ci si deve proprio aggrappare se non si vuole morire anzitempo, prima che anche la speranza abbia trovato un viatico quanto meno ipotetico per poter vivere di sé stessa. Tre uomini che ci hanno dimostrato come le lotte particolari siano solo apparentemente tali.
In realtà ogni singolo impegno, dalla libera informazione all’anticapitalismo, dalla libertà dei popoli alle indipendenze nazionali negate, è parte di un più complesso e complessivo sviluppo di una alternativa che riguarda tanto la struttura economica quanto le sovrastrutture di ogni tipologia. La dialettica incessante di questo mondo fatto di interazioni veramente molto difficili da disarticolare, per comprendere quale sia la giusta analisi e necessaria, è la premessa di un discorso molto più ampio.
Una ampiezza che Manisco, Mujica e Rashid conoscevano bene senza, per questo, esserne atterriti. Prendiamo a prestito alcune loro frasi per rendere meglio il concetto. In una intervista rilasciata a Gabriela Pereyra (e pubblicata in questi giorni dal settimanale “Left”) Pepe Mujica afferma: «Io sono della idea che qualsiasi vittoria, qualsiasi trionfo non sia mai definitivo, perché non credo neanche alle sconfitte definitive. Negli uomini c’è l’idea della lotta permanente per salire scalino dopo scalino, con l’obiettivo di raggiungere lo sviluppo della civiltà».
Il problema riguardante il rapporto tra la trasformazione della guerra in qualcosa di fortemente sistemico nello sviluppo ipercapitalistico di oggi e l’approccio della sinistra di alternativa in merito veniva condiviso da Lucio Manisco proprio in un contesto di contrazione delle conquiste del passato: non tanto per colpa della classe operaia, del mondo del lavoro in sé e per sé (come avrebbe detto Marx); quanto semmai per un tradimento delle forze progressiste nei confronti del proletariato moderno.
In risposta ad una domanda fattagli da “l’Antidiplomatico”, ormai nel lontano 2018, Lucio affermava che «le tematiche come la guerra, le aggressioni del grande impero contro alcuni paesi, sono strettamente connesse alla crisi che sta vivendo l’economia capitalistica; argomento, anche questo, spesso affrontato con retorica e superficialità» proprio da quella sinistra di cui lui si continuava a sentire parte e per la quale, proprio per questo rapporto di intrinseca affezione e affiliazione ideologico-politica, nutriva qualcosa di più di una semplice simpatia.
Facendo della estrema sintesi la chiave chiarificatrice di quello ci troviamo innanzi quando parliamo di conflitto israelo-palestinese ancora e, forse, soprattutto oggi, Alì Rahid, in un suo colloquio con Unimondo.org (in un ancora più lontano 2011), affermava: «Vi sono vasti settori dell’opinione pubblica che associano la parola “Palestina” ad una storia d’ingiustizia. C’è una lotta giusta di un popolo che da più di 60 anni si trova a combattere per sopravvivere in quanto popolo. In quanto tale. Per sua sfortuna ha come controparte Israele che è nel contempo una potenza politica, economica, militare molto influente nell’opinione pubblica transnazionale».
In tutti e tre questi concetti estrapolati da interviste molto più lunghe e articolate, si può notare come uno dei problemi sia la provvisorietà delle opinioni che si accompagna a quella dei diritti. Non c’è nessuna certezza ideale che si traduca, in pratica, in una certezza concretamente palpabile: non vi è garanzia imperitura delle conquiste che si ottengono e non vi è, soprattutto, garanzia che il rispetto delle stesse possa arrivare da chi non le ha mai caldeggiate, volute o spalleggiate.
La mediazione comunicativa ha indotto tantissime persone a formarsi una serie di calcificanti pregiudizi, utili a quello che un tempo si sarebbe chiamato il “pensiero unico“, tesi a dimostrare che l’apparenza ha un valore e che, invece, tutto ciò che le sta al di sotto ed è la vera essenza delle cose e dei rapporti sociali, civili, culturali e morali, può essere addirittura trascurabile. La frenesia dei tempi moderni è una oggettività che viene presa comunque a pretesto per evitare che l’approfondimento permetta la conoscenza del vero, di ciò che accade e non di ciò che sembra accadere nel racconto di quello che viene definito “mainstream“.
El Pepe amava andare alla radice dei problemi, parlando così semplicemente da lasciare interdetti i più grandi teorici del neosocialismo, della decrescita, del teologismo della liberazione: « Tutto quello che implica progresso umano e sociale, implica una lotta, niente è regalato dagli dei». Ci permettiamo una traduzione in chiave quasi antropologico-politica: nessun padrone ci farà mai dono dei diritti che ci spettano. Nessun governo imperialista concederà mai ad un popolo che tiene sotto il proprio giogo da decenni e decenni quella libertà e democrazia di cui pretende di essere maestro in Medio Oriente.
Perché mai poi i palestinesi dovrebbero essere destinatari di concessioni altrui? La lotta di più di una generazione è uguale a quella dei popoli andini che si sono opposti al neocolonialismo e allo sfruttamento delle loro terre. Viene alla mente Chico Mendes, così come tutte queste diapositive del recente passato non possono mancare di altre immagini che riguardano lotte sia violente sia non-violente represse nel sangue come nel caso dei desaparecidos cileni e argentini.
Viene parimenti alla mente la grande lotta che fece Lucio Manisco per la liberazione di Silvia Baraldini e di Mumia Abu-Jamal. Ma non di meno per Leonard Peltier. Se ne vanno quindi tre uomini liberi, altrettanto liberi pensatori e militanti genuini di un altermondialismo che non è finito. Subisce una sconfitta di non poco conto da molti anni. L’attuale fase multipolare, che prende il posto del presuntuoso unipolarismo nordamericano, porta con sé una destabilizzazione difficilmente immaginabile qualche decennio fa.
Ciò che hanno fatto, detto e scritto Lucio Manisco, Pepe Mujica e Alì Rashid deve rimanere un prezioso tesoro cui attingere per avere chiavi di lettura aggiornate sul presente e nella prospettiva immediata del prossimo futuro. Quando ci sembra di aver perso la bussola, di sentirci smarriti e senza più un appiglio cui poterci aggrappare per resistere e andare avanti, possiamo ritrovare anche nella loro genuina molteplice lotta culturale, politica e sociale un motivo e molte ragioni per non disperare.
Sono soprattutto le parole semplici che resistono nel tempo e che penetrano nelle menti e vi rimangono saldamente ancorate. Abbiamo bisogno di una nuova generazione di rivoluzionari. Ma abbiamo anche bisogno di avere alle nostre spalle una storia di buoni esempi che riprenda il meglio del passato e lo proietti più in là del nostro corto, miope vedere.
MARCO SFERINI
15 maggio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria