C’è del marcio in Occidente

Che cosa ci può mai redimere da millenni di occidentalizzazione del mondo, dopo che le grandi civiltà del passato si sono sviluppate sui propri assi e le direttrici più...

Che cosa ci può mai redimere da millenni di occidentalizzazione del mondo, dopo che le grandi civiltà del passato si sono sviluppate sui propri assi e le direttrici più che altro commerciali, distanziandosi eppure rimanendo così collegate fra loro? Perché dovremmo redimerci, si può chiedere chiunque: forse per il sempilce motivo che rimanda ad una colonizzazione de iure e de facto imposta ad altri continenti da un espansionismo proprio dell’imperialismo di grandi potenze economiche che, acquisendo nuove vastissime terre e il dominio su interi popoli, sono diventate nel corso dei secoli le signore di un mondo che non apparteneva loro.

Fatte tutte le debite eccezioni e considerate tutte le differenze temporali, i sogni di gloria eterna dei grandi imperi europei non erano poi così dissimili dalla totalizzante voglia assimilatrice da parte della Germania di Hitler. Piergiorgio Odifreddi, nel suo libro “C’è del marcio in Occidente” (Raffaello Cortina Editore, 2024), cita a proposito, proprio nel capitolo intitolato “Colonialismo“, il ritornello dell’inno della “Hitler-Jugend” (la “Gioventù hitleriana“): «Oggi la Germania e domani l’intero mondo». Sono parole minacciose; parole che prevedono un futuro in cui un solo governo, un solo popolo, un solo Stato avrà ragione di tutti quelli che sono considerati “inferiori” e, quindi, secondo quella che il Führer reputa una “legge di natura“, vanno sottomessi ai forti.

Questo processo colonizzatore non è una recente invenzione del mondo contemporaneo, ascrivibile agli ultimi tre secoli soltanto. Parte dalla scoperta delle Americhe fatta da Cristoforo Colombo e assume, conquista dopo conquista, una fisionomia sempre nuova e differente ma i cui caratteri specifici e fondamentali rimangono comunque uguali a loro stessi. La spartizione dei territori ne è uno. Un altro è l’imposizione della cultura, della religione, della lingua ai nativi, spogliandoli della loro identità e del loro essere comunità più o meno organizzate secondo un catena di comando dalla base al vertice. L’Europa che conquista il mondo è un dato di fatto che troppo spesso, soprattutto a scuola, si trascura di far notare, lasciando passare l’idea che siamo stati – noi occidentali – i civilizzatori del resto del pianeta.

Invece siamo stati degli spietati esportatori di modelli politici, sociali, economici che hanno devastato interi popoli, terre abitate come lande desolate, appropriandoci di tutto quello che di prezioso si poteva trovare nei mondi nuovi: dall’America fino all’Australia, per non parlare dell’Africa. Dopo la seconda fase della storia degli ultimi cinque secoli, la decolonizzazione, viene la globalizzazione del moderno capitalismo iperliberista. Più o meno la si piò collocare al principio degli anni Novanta del Secolo scorso, quando il grande edificio del socialismo (ir)reale dell’Est europeo crolla su sé stesso impietosamente e sulle spinte della riconquista mercatista.

Da quella fase in avanti, quello che viene chiamato “unipolarismo” è somigliato sempre di più ad un tentativo concretamente spietato di dominio davvero globale sostenuto dal militarismo delle guerre di conquista dei paesi mediorientali e asiatici in cui si trovavano (e si trovano tutt’ora) beni inestimabili rappresentati dalle materie prime del sottosuolo, corroborato dalle politiche espansionistiche supportate dalle grandi centrali del capitalismo internazionale (Banca Mondiale e Fondo Monetario), supportato da una nuova teorizzazione della missione civilizzatrice da parte dell’Occidente come modello etico-fideistico.

Seppure molto inconsciamente, almeno per quanto riguarda le grandi masse popolari, questo fenomeno di unipolarizzazione è stato il sogno del liberismo statunitense a partire dagli anni Settanta del Novecento: quando, cioè, si era andata sempre più facendo strada la convinzione macroeconomica che l’economia dovesse avere nello Stato un sostenitore di primo livello e di tutto rispetto, costringendolo quindi ad abbandonare la sua funzione di regolatore compromissorio tra pubblico e privato. Non si trattava più, quindi, di far convivere due differenti visioni e impostazioni della società (o secondo il punto di vista del mondo del lavoro o secondo quello del mondo imprenditoriale); bensì di stabilire il criterio della primazia del profitto su tutto il resto.

A questa teorizzazione è seguita, nella pratica, la condiscendenza da parte delle forze progressiste moderate (come i democratici statunitensi) che si sono prestate, per interesse politico e per favori personali o partitici, al gioco cinico della tutela dei grandi interessi privati, corporativi, su cui la nuova era del capitalismo moderno è riuscita a salvare, oltre alle apparenze, anche le sostanze dalle crisi radicalmente epocali come quella del 2008-2009 che hanno segnato dei veri e propri spartiacque nella ridefinizione dei rapporti di forza tra i poli emergenti dalle ceneri del miraggio unipolare della Repubblica a stelle e strisce.

Odifreddi ne parla con tutta la durezza critica di una coscienza che si è vista illudere, a partire degli anni della giovinezza, da un grande afflato di libertà, residuo del dopoguerra, dell’inizio della sostituzione delle tragedie belliche del secondo conflitto mondiale con un’era di prosperità che pareva avere nei marziani americani, venuti da lontano e sbarcati nella civile e totalitarissima Europa delle dittature nazi-fasciste (ma anche delle tante resistenze che vi si erano opposte). La condivisione del grande sogno democratico, eredità rivoluzionaria di un retaggio illuministico di non poco conto, svanisce per il matematico nel momento in cui il Vietnam compare nelle cronache di ogni giorno.

Lì, in una guerra non di liberazione, ma di occupazione, di un mondo contro un altro, nel pieno della Guerra Fredda, i giocatori della contesa globale scoprono le loro carte e la spaventosa pulsione genocidiaria inizia a farsi largo: la vittoria è sottomissione, annichilimento, sfrontatezza propagandistica che prova a dissimulare i veri obiettivi sul campo. I ragazzi fuggono sulle vie lastricate dove passano i carri armati, mentre gli aerei con le stelle dello Zio Sam bombardano di napalm i villaggi e le città del nord e causano decine di migliaia di morti tra atroci sofferenze. C’è già lì tutto un distopico rapporto tra coscienza interiore e attualità di una guerra che, almeno nelle intenzioni, doveva essere – dopo Norimberga – bandita dalla Storia.

Invece vi si ripresenta con prepotenza, perché è proprio la prevaricazione la leva del neocapitalismo vorace che pretende il dominio incontrastato su tutto il pianeta e vede in quella falsificazione del comunismo originario ottocentesco che è stato il socialismo irrealizzato dalla torsione autoritaria sovietica un impedimento all’espansione nordamericana come fulgida fiaccola della libertà occidentale rispetto al dispotismo orientale. Passano i decenni, il mondo si fa multipolare, ed ecco che la lotta per la supremazia a scapito del resto del pianeta si riaffaccia sulla scena della Storia e dell’attualità in divenire.

Piuttosto interessante è l’ampia disquisizione che Odifreddi dedica al rapporto tra scienza e fede, scienza e metafisica e, quindi, anche tra scienza e concretezza brutale di una economia che produttivizza tutto, merceologizza ogni cosa entro quella che è la naturale disposizione del sistema capitalistico. Nella cosiddetta “postmodernità” si situa tutta una rivisitazione del pensiero occidentale che spinge nella direzione dell’immateriale, della mitizzazione dei concetti, del pregiudizio, della superstizione tanto laica quanto religiosa, della metafisica a tutto tondo: intendendo quindi anche la psicoanalisi come una sorta di civetteria umana, un capriccio, un divertissement del pensiero che teorizza l'”inconscio” al posto della classica “anima” cristiano-cattolica.

Il viaggio di Odifreddi negli eccessi dell’occidentalismo, in quell’eccesso stesso che è divenuto, quasi per antonomasia, l’Occidente in quanto storicamente tale, si muove dall’abuso della metafisica fino al destrutturalismo come elemento cardine di una tendenza, per l’appunto post-moderna, ad eliminare tutta una serie di categorizzazioni che sarebbero (e tante volte sono) distinzioni esiziali perché forniscono i presupposti del discrimine fondato su un apriorismo che lede la critica ragionata, l’accettazione dei dati di fatto scientifici e scade, ancora una volta, nell’ideologizzazione dei concetti, presupponendo quello che, in realtà, non corrisponde al reale in quanto materialmente osservabile, riproducibile, verificabile e, dunque, fattuale.

L’empirismo, i dati dell’esperienza sono, proprio in nome di un ritorno preponderante alla metafisica (come astrazione da ciò che è propriamente concreto e tangibile), messi in discussione da tutta una narrazione di eventi distorti da una degenerazione dell’immaginazione in teorie di complotto che nient’altro sono se non la prosecuzione della politica con altri mezzi, oltre alle guerre che imperversano. Le più nobili affermazioni della gnoseologia soggettiva, come l’affermazione di Nietzsche: «Non esistono fatti, solo interpretazioni», sono state complicate al punto da essere rese dei mantra neoreligiosi a supporto di concezioni individualistiche di una realtà messa completamente in discussione. Se non esistono più verità, ed esistono quindi esclusivamente opinioni, tutto diviene possibile.

Ogni cosa è affermabile e smentibile senza una base scientifica: la pandemia da Covid-19 ha dimostrato come, in uno stato di incertezza massima, di insicurezza globale, è facilissimo manipolare la fragilità collettiva (e singola) portandola laddove il tasso di critica è minore e maggiore è invece quello della supposizione. Il ruolo dei social e dei mezzi di comunicazione informatici – lo evidenzia molto bene Odifreddi nel capitolo su “L’idealismo” – ha quindi una responsabilità abnorme in una eterogenesi moderna dei fini, in una disciplina dei comportamenti che sembrano affidati ad uno sciamanesimo intriso di superstizione all’ennesima potenza.

Piuttosto che all’oggettività delle prove, si crede alle affermazioni del “sentito dire” o, peggio ancora, del detto perché detto, come se ognuno di noi avesse il diritto (taluni pensano anche il dovere) di farsi apostoli delle nuove verità di una fede fatta dell’esatto contrario di quello che è l’evidenza scientifica: la Terra può essere piatta, i democratici americani si nutrirebbero di cavie sotterranee e divorerebbero bambini (un po’ come i democristiani dicevano dei comunisti appena dopo la fine della Seconda guerra mondiale per disincentivare il voto per il PCI); così pure noi saremmo i figli degli Eloim, oppure dietro ai nuovi conflitti, invece che le vere (s)ragioni legate agli interessi imperialisti, vi sarebbero chissà quali complotti internazionali.

Odifreddi consegna alle lettrici e ai lettori una autocritica da uomo occidentale che è andato oltre la delusione e la frustrazione. Ha abbandonato la tentazione alla rassegnazione davanti a forze enormemente potenti e, nonostante tutto, ha provato a comprendere le ragioni di uno sviluppo devastante in ogni direzione: umana, animale, ecosostenibile, economica, culturale, etica e politica. Non tutto viene considerato “marcio“, ma è da questo che si deve partire per cercare di salvare il salvabile e aprirsi, ciascuno nel proprio piccolo pezzo di quotidianità, ad un processo di rinnovata critica sociale, civile e morale.

C’È DEL MARCIO IN OCCIDENTE
PIERGIORGIO ODIFREDDI
RAFFAELLO CORTINA EDITORE, 2024
€ 16,00

MARCO SFERINI

12 marzo 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria


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