Bellezza, bontà e verità: possibili edificatrici del senso esistenziale

Buono e bello è una endiadi delle più durature che si siano mai potute riscontrare nel corso del cammino umano su questa Terra. Una complicità non tanto lessicale o...

Buono e bello è una endiadi delle più durature che si siano mai potute riscontrare nel corso del cammino umano su questa Terra. Una complicità non tanto lessicale o terminologica che rimanda ad una semplice figura retorica. Semmai un equilibrio che permane costante nel tempo e si perpetua in una similitudine che mette insieme etica ed estetica, dando alla prima una rappresentazione visibile attraverso una categoria astratta e permettendo alla seconda di essere accomunata ad una serie di azioni, comportamenti e situazioni in cui è riscontrabile un carattere ultra metafisico.

La bellezza rimanda istintivamente alla bontà: perché ciò che è buono viene rappresentato con i caratteri della felicità, dell’amore, della fratellanza, della comunanza di idee, sentimenti, di compenetrazioni empatiche che si possono accostare a tutto ciò che in Natura è esattamente un insieme fatto di differenze che non lottano fra loro ma che, pur negli scontri che vi possono essere e nelle contraddizioni che vi permangono, rimane una unità costante e, tuttavia, in continuo mutamento.

La riconsiderazione della bellezza in quanto fattore non puramente estetico, ma con invece molti riflessi indiretti (eppure così soggettivamente ed oggettivamente percepibili e riscontrabili nell’esperienza di ogni giorno) nei confronti della bontà (e viceversa), è un esercizio concettuale, filosofico e molto più vastamente cultural-sociale non solamente attribuibile al moderno Romanticismo settecentesco. Si può affermare che nell’antichità classica si trovino i presupposti fondamentali di una rivisitazione tanto delle categorie quanto del loro raffronto con i termini della realtà e della vita comune.

L’endiadi appena citata, se ci trasportiamo oltre i confini del nostro tempo fino alla scuola pitagorica, diventa un trittico nel momento in cui a bellezza e bontà si associa anche la verità. Bello, buono e vero si interfacciano grazie ad una cultura che ha trasformato i suoi stessi concetti passando per una sinestesia che ha consentito al pensato di diventare parola e a questa di assumere tutte le fattezze dell’organicità materiale identificandosi comunemente in un determinato oggetto, persona, animale, comportamento, evento naturale o metafisico.

Così, per fare un esempio a dir poco calzante, ecco che il termine greco καλός (“kalòs“) può comunemente significare “bello” ma, in certi contesti, anche essere sinonimo di “buono“. In altre parti del mondo si sono sviluppate così delle traduzioni linguistiche della realtà che hanno permesso una lettura della stessa secondo canoni che mettevano insieme quindi estetica ed etica, mostrando come i concetti abbiano un loro valore intrinseco e comune a tutti, perché la capacità umana di riflettere e pensare è per l’appunto un tratto distintivo della specie, ma, al contempo, possano essere interpretati nella declinazione delle singole culture popolari.

Per questo, tanto il fattore propriamente estetico quanto quello propriamente etico variano da continente a continente, da paese a paese e, più ancora, mutano col cambiare dei tempi. Ad ogni epoca, del resto, i suoi costumi e le sue tradizioni che non rimangono mai del tutto imperturbabili e immarcescibili. Se poi ci si mette in relazione con i grandi eventi naturali che sembrano esserci molto spesso ostili, si potrà riconoscere qui una vena veramente romantica nella riscoperta del “sublime” come vero e proprio fenomeno estetico ed etico al tempo stesso.

La smisurata incommensurabilità della potenza della Natura, così come l’impenetrabilità del mistero rappresentato dall’Universo e dall’esistente in cui ci troviamo e in cui tentiamo ogni giorno di dare un senso, un significato, è qualcosa di veramente sublime: tanto più se a questo termine si associa la categorizzazione kantiana di dinamicità che non si contrappone a quella matematica di semplice contemplazione degli spettacoli datici dal mondo che ci sta innanzi, sopra, sotto e tutto intorno. Kant scrive, infatti, che la constatazione dell’impotenza umana di fronte ai grandi stravolgimenti naturali non fa venire meno la straordinarietà degli stessi.

«Gli uragani che si lascian dietro la devastazione, l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta riducono a una piccolezza insignificante il nostro potere di resistenza. Ma il loro aspetto diventa tanto più attraente quanto più è spaventevole, se ci troviamo al sicuro; e queste cose le chiamiamo volentieri “sublimi“, perché esse ci elevano le forze dell’anima al di sopra della mediocrità ordinaria e fanno scoprire in noi stessi una facoltà di resistere interamente diversa, la quale ci dà il coraggio di misurarci con l’onnipotenza della natura» (Immanuel Kant, “Critica del giudizio“).

C’è, nella frase appena citata, la straordinaria (e quindi “sublime“) apparente dicotomia tra l’impossibilità di frenare i grandi e terribili mutamenti naturali e, al tempo stesso, fare parte di quella Natura che li produce e che, quindi, può scatenarsi contro noi. Quando guardiamo il prodursi di uno tsunami e il suo scaraventarsi sulle coste di un paese che ne viene, così, duramente colpito e devastato, non possiamo non confessarci di provare nel medesimo istante sia l’orrore (sublime) per quello che sta avvenendo, per le vite che saranno spezzate e la distruzione che ne conseguirà, sia l’estasi (sublime) per l’evento in quanto tale.

Lo stesso può accadere anche per eventi non propriamente naturali ma, invece, indotti dall’essere umano: pensiamo allo scoppio di una bomba atomica. Anche solamente assisterne davanti ad uno schermo televisivo – si pensi agli esperimenti di Mururoa di qualche decennio fa, oppure al fungo atomico delle bombe sganciate dagli americani sul Giappone del 1945… – desta stupore, meraviglia, rabbia e orrore in un unico preciso istante. Qui la bellezza non c’entra, perché la categoria del “sublime” eleva il concetto, tanto in chiave negativa quanto in chiave positiva, e riduce il bello ad un contesto di materialità definibile, circonstanziabile e ritrovabile in un singolo fenomeno, persona o oggetto.

Kant osserva che il bello della Natura riguarda la forma di ciò che si osserva, mentre il sublime è anzitutto riscontrabile in qualcosa di amorfo e dai contorni tutt’altro che definibili: una violenta tempesta è bella in quanto sublimemente tremenda e portatrice di pericolo assoluto per chi vi si ritrova. La bontà qui c’entra molto poco, ma la verità invece è una costante: ciò che è naturale è vero quasi a prescindere. La constatazione oggettiva dell’esistente è verità in quanto essenza, in quanto ontologicamente constatabile.

La bellezza e la bontà, quindi, sono qualità della verità che è prima di tutto oggettività del reale che, a sua volta, è razionale. Senza scomodare Hegel, non è difficile trovare – per l’appunto mediante l’utilizzo della logica e anche di un pizzico di percettività istintiva – un nesso tra razionalità dei comportamenti naturali in una disposizione meccanicistica che segue un comportamento uguale per ogni singolo fenomeno. La trasformazione della materia obbedisce, se vogliamo semplificare un po’, a leggi che le sono intrinseche e che riguardano anche una armonia matematica.

Quando Kant parla di sublime matematico intende proprio questo: l’ammirazione per la complessità dei fenomeni che, nonostante la loro enormità, inarrivabile per quel “potere” umano che la vorrebbe magari dominare (e dalla quale invece è dominato), sono comprensibili razionalmente entro i termini dell’umano vivere qui ed ora su questa Terra. Quegli stessi fenomeni sublimi, nell’attimo in cui sfuggono alla nostra capacità di categorizzazione dell’esistente, nella proiezione dell’infinito, del tutto che trascende il particolare e che, però, pure lo include e non lo trascura mai, finisce col sfuggire alla asfittica costrizione della necessità di un significato dell’essere, dell’esserci.

La bellezza può, del resto, ritrovarsi in molti campi della nostra vita: non sono soltanto belli i tramonti e le albe, le magnificenze floreali e le straordinarie (quindi sublimi) particolari espressioni di ogni vita presente sul pianeta. Belle sono anche le parole, che rimangono volatili, impalpabili e non tangibili se non messe, come queste, su un foglio di carta o su un sito Internet. Belli e buoni possono essere dei concetti, dei giochi di parole stessi. In sostanza, bella, buona e parzialmente veritiera può essere la nostra capacità di dare vita a tutta una serie di presupposti, di concetti, di idee e di fantasticherie.

La filosofia stessa è una forma di bellezza dell’intelletto umano, di quell’autocoscienza che andrebbe meglio considerata come proprietà straordinaria (e, quindi, nemmeno a dirlo… sublime!) della nostra essenza particolare: un qualcosa che ci rende unici ma che, va ribadito sempre, non ci autorizza a considerarci per questo in diritto di disporre di tutto e di tutti su questo pianeta come nel limitrofo che lo circonda. Noi siamo capaci di dare alle cose singolari e al tutto nomi, studiandole e cercando di capire le correlazioni che hanno col resto dell’esistente. Questa facoltà è bellezza ma non necessariamente corrisponde alla bontà e alla verità.

Perché nel momento in cui utilizziamo la nostra intelligenza per sovvertire l’ordine naturale, per antropizzare tutto, per mettere tutto al servizio dell’essere umano, noi scostiamo la bellezza delle nostre capacità dalla bontà, dall’etica quasi universale che noi percepiamo empaticamente rispetto al rapporto con gli altri viventi e con la Natura in quanto tale. La bellezza della nostra autocoscienza si ferma quindi, data la nostra attitudine alla prevaricazione, sul limitare della sua essenza, in un ristretto perimetro di atavicità che la soffoca e la reprime.

Se, invece, noi permettiamo alle nostre capacità intellettive di essere messe al servizio del mondo intero, rispettando tutte le vite, le differenze, le particolarità che rendono questa esistenza straordinariamente “sublime“, allora una correlazione diretta tra bellezza, bontà e verità è non solo possibile ma quasi letteralmente intrinseca nell’essenza dell’esistente. Per carità, nessun riferimento direttamente ontologico, per di più heideggeriano, a tutto ciò; solo un cenno opportuno ad una ricerca di una speranza nelle qualità date alla materia animata (e nel nostro caso cosciente – ed anche molto incosciente/incoscienziosa).

Una speranza che, caso mai esista un senso dell’esistenza, sia ritrovabile nella sublimazione, nella matematicità kantiana di una razionalità etica, di una disposizione dell’essere umano ad arrivare, un giorno, ad un punto di nuovo principio: quello di una legge morale che non trascuri mai la bellezza come inscindibile dalla bontà e queste da una verità che sia, anzitutto, constatazione del bene comune nel rispetto di quello singolare. Di tutti gli esseri viventi, della Natura e quindi di noi non per primi, ma insieme agli altri.

MARCO SFERINI

4 maggio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

categorie
Il portico delle idee

altri articoli