Atenei disobbedienti, Harvard non è più sola

La Casa bianca minaccia i campus soggetti alla «task force contro l’antisemitismo». Ma anche Columbia, Yale e Stanford dicono no

L’escalation dell’amministrazione Trump contro le sponde istituzionali e civili degli Stati uniti prosegue su molteplici fronti. Ieri la Casa bianca ha alzato il tiro su Harvard, l’ateneo reo di aver respinto le condizioni del presidente per continuare a ricevere fondi federali. In una conferenza stampa la portavoce Karoline Levitt ha accusato l’università di «non rispettare la legge» e confermato la sospensione dei contributi federali al campus inadempiente.

Trump aveva intimato di cessare «la discriminazione» contro i bianchi (cioè le politiche di pari opportunità per minoranze) e impegnarsi a denunciare gli studenti stranieri «ostili ai valori americani». Il presidente ora «esige le scuse» e minaccia di sospendere la classificazione no profit delle università, soggette anche alle inquisizioni della speciale «task force contro l’antisemitismo» che ha facoltà di interrogare amministratori e raccomandare misure «correttive». Come aveva affermato lo stesso presidente nel 2013 «strozzeremo i finanziamenti alle scuole che coadiuvano l’attacco marxista alla nostra cultura americana e alla stessa civiltà occidentale».

Altri atenei intanto come Yale e Stanford – e ora anche la Columbia – si sono associate alla posizione di Harvard, avendo apparentemente e tardivamente realizzato che la sottomissione al ricatto di un governo autoritario è scarsamente compatibile con una libera istruzione universitaria. Per Trump di contro l’argomento è fertile terreno demagogico sul quale stigmatizzare per la base, istituzioni accademiche elitarie come coacervi di «cultura woke». Più lo scontro è frontale più comporta in certa misura vantaggi politici.

Un altro fronte che non lascia intravedere alcun compromesso è quello delle deportazioni extralegali, in particolare quelle coreografate per massimo effetto mediatico-propagandistico verso il Centro de confinamiento del terrorismo (Cecot) in El Salvador.

In particolare vi sono stati spediti circa 200 migranti, in gran parte venezuelani, caricati su voli speciali in catene e rinchiusi, senza udienze o appelli, nel buco nero del famigerato penitenziario. L’operazione è stata portata a termine malgrado lo specifico ordine giudiziario che intimava di riportare indietro l’aereo quando era ancora in volo verso il Centroamerica. Ordine flagrantemente ignorato, come lo sono state le successive direttive del tribunale che sta valutando gli appelli di legali e famigliari dei desaparecidos.

Il principale pretesto addotto ora da Trump e da Marco Rubio è che le deportazioni sommarie ricadrebbero sotto l’insindacabile giurisdizione del presidente e del suo segretario di stato in quanto aspetti di «politica estera». Il governo afferma inoltre che gli uomini sarebbero «terroristi» e appartenenti a pericolose gang come la venezuelana Tren de Aragua. Indagini del New York Times e di Cbs News non hanno tuttavia potuto corroborare le accuse né rilevare precedenti penali per i detenuti, al di là di piccole infrazioni.

Il caso più eclatante di trasgressione giudiziaria riguarda uno dei deportati, Kilmar Abrego Garcia. L’uomo, originario del Salvador, arrivato negli Stati uniti nel 2011 all’età di 16 anni come profugo, è oggi padre di tre figli, sposato con una cittadina americana. Era residente in Maryland da 14 anni grazie ad un permesso speciale da rifugiato.

È stato prelevato in quello stato davanti al figlio autistico di cinque anni e caricato sul volo dei desaparecidos. In seguito la stessa amministrazione ha ammesso di essersi trattato di un «errore amministrativo». In seguito la versione è cambiata e il governo ha affermato di avere prove dell’appartenenza di Garcia alla gang MS13. La ministra della giustizia Pam Bondi si rifiuta tuttavia a oggi di produrre alcuna prova.

Il palese sprezzo delle procedure giudiziarie hanno indotto perfino la Corte suprema a maggioranza reazionaria ad emettere un sentenza unanime che intima al governo di «facilitare il rimpatrio» di Garcia. Per tutta risposta Trump che ha ricevuto alla Casa bianca l’autodefinito dittatore del Salvador, Nayib Bukele, orchestrando una sceneggiata in cui quest’ultimo ha negato di avere l’autorità per rispedire in America un cittadino del suo paese.

La strategia del continuo fatto compiuto e dell’ostruzionismo ad ogni ordine dei tribunali a finalmente indotto il giudice James Boasberg che segue il caso, ad annunciare «l’imminente formalizzazione» dell’oltraggio alla corte che preluderebbe a possibile rinvio a giudizio di funzionari dello stato. Un’altra giudice, Paula Xinis, incaricata specificamente dell’appello di Garcia potrebbe presto seguire il suo esempio.

Sarebbe il bivio ineludibile che aprirebbe la crisi costituzionale piena in cui l’esecutivo “imperiale” sarebbe in aperta violazione dei tribunali federali e della Corte suprema, rappresentando l’esautorazione della funzione costituzionale del ramo giudiziario.

LUCA CELADA

da il manifesto.it

foto: screenshot tv ed elaborazione propria

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