Aspettative neoliberiste sul trumpismo e dipendenza europea

Su quanta ingovernabilità politica punta oggi il sistema neoliberista e, invece, quanto affidamento fa sul ruolo dello Stato asservito al potere delle élite economico-finanziarie? Non è calembour, non è...

Su quanta ingovernabilità politica punta oggi il sistema neoliberista e, invece, quanto affidamento fa sul ruolo dello Stato asservito al potere delle élite economico-finanziarie? Non è calembour, non è nemmeno un tentativo biecamente perfido di sciarada pseudo-concettuale. Semmai, forse un po’ presuntuosamente, è un dilemma che appare sufficientemente chiaro nel momento in cui proprio il trumpismo diviene l’asse portante di una disintegrazione del blocco occidentale così come era stato concepito, voluto e portato avanti almeno a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Con tutte le innovazioni del caso, resilientemente capace di adattarsi al protrarsi di una crisi che, dalla fine dello sconvolgimento dovuto al crollo del socialismo irreale dell’Est Europa, si è riversata nella più attuale fase multipolare, il problema riguardante i rapporti tra la cosiddetta governance del sistema e il sistema ipercapitalistico moderno assume oggi nuovi connotati.

Siamo innanzi a delle novità di grande rilievo perché, kynesianamente parlando, dalla teorizzazione (e la pratica) della “demand-side economy” (quindi l’intervento da parte dello Stato in sostegno della domanda aggregata (consumi, investimenti, spesa pubblica) si è passati all’abbraccio della teorizzazione opposta, sponsorizzata fdai Chicago boys: la “supply-side economy“.

Questo secondo tipo di intervento, a differenza di quello supposto da John Maynard Keynes, si rivolge invece all’offerta da implementare con la detassazione dei capitali, la privatizzazione delle imprese di Stato e, conseguentemente, l’incentivazione di una politica governativa che comprime la spesa pubblica nel nome della crescita produttiva tutta ed esclusivamente al servizio del privato e del mercato. Non per niente, uno dei maggiori sponsorizzatori di questo intervento conservatore di matrice liberista e pseudo-statalista al tempo stesso, fu negli Stati Uniti d’America Ronald Reagan.

Alla domanda iniziale ne va aggiunta un’altra, dunque: se l’ordoliberismo attuale è una accelerazione involutiva del neoliberismo stesso (ovviamente dal punto di vista del mondo del lavoro e degli oltre due miliardi e mezzo di salariati al mondo che, se potessero avere tutti una coscienza di classe, dovrebbero interpretare in questo modo l’evolversi degli eventi e della moderna lotta fra le classi stesse), il trumpismo è un prodotto che gli deriva e che, tuttavia, si caratterizza nella sua unicità nazionale, oppure è una scheggia impazzita che nemmeno il sistema capitalistico riesce a controllare di sé e per sé?

Non fosse altro per il riferirsi alla logica e cronologica successione degli eventi, è evidente che Trump e il suo movimento MAGA sono una conseguenza del neoliberismo moderno. Ma è pur vero che, qualunque passaggio storico non rimane asetticamente incontaminato da influenze contingenti e, quindi, nel mentre si sviluppa, si nutre tanto delle distruzioni del vecchio mondo quanto delle innovazioni (o presunte tali) che introduce. Sul fatto che la governance neoliberista stia producendo una serie di disequilibri globali c’è davvero poco da discernere e discutere. Si tratta di una oggettiva osservazione che riguarda la contesa mondiale

A fare le spese di tutto questo subbuglio economico, finanziario e imperalistico-bellicista sono i popoli che si trovano nel mezzo delle operazioni per la riconfigurazione degli spazi di influenza delle potenze di un tempo, che tentano di riprendersi il controllo del pianeta (o quanto meno l’egemonia monetaria che rischia di sfumare dopo la fine del bipolarismo prima e della breve trentennale fase unipolare seguita al 1989). La guerra in Ucraina ne è, da almeno un decennio a questa parte, un esempio piuttosto oggettivo, con tutte le accelerazioni del caso che ha subito a partire dal febbraio del 2022.

La competizione più generale, sia su scala locale (continentale e nazionale) sia su scala globale, costringe il mondo del lavoro a fare i conti tanto con le ripercussioni finanziarie quanto con un progresso tecnologico che continua a determinare quelli che vengono definiti “effetti svalutativi” sul potere di acquisto dei salari e, più in senso lato, sull’intero comparto delle assunzioni, sulla tenuta degli organici delle medie come delle grandi imprese. Che cosa ha tentato di fare il neocapitalismo iperliberista di questi ultimi decenni su questo piano, per addomesticare sempre più la capacità dei moderni proletari di riorganizzarsi sindacalmente?

Ha parcellizzato il lavoro, ha atomizzato i diritti, ha individualizzato e soggettivizzato il tutto. La inevitabile conseguenza è stata la rimessa in discussione di reti e apparati del vecchio stato-sociale che ancora avevano una qualche forma di tenuta almeno nelle cosiddette “democrazie liberali” di chiaro stampo occidentale. Ed ecco che, proprio qui, rientriamo nel viatico di quanto si scriveva al principio di queste righe: l’ingovernabilità dell’economia, che di per sé è un prodotto dell’anarchia del sistema, costretto a fare i conti anzitutto con l’incedente crisi ambientale, confligge con una regressione politica altrettanto inevitabile.

La risposta all’ingestibilità dell’attuale fase di ristrutturazione globale del capitale nei confronti delle forze uguali e contrarie che lo combattono istintivamente e naturalmente (al di là della coscienza di classe per sé) è data da forze politiche populiste che tentano, con l’esasperazione dei timori, delle paure e delle classiche manifestazioni fobico-sociali dovute alla disperazione della sopravvivenza quotidiana, di stabilire un nesso tra interessi diametralmente opposti. Lo riescono a fare, come nel caso di Milei in Argentina, di Trump negli USA, di Orbán in Ungheria e di Meloni in Italia, affidandosi ad uno statalismo completamente condiscendente nei confronti del mercato.

Alcuni di loro, come Donald Trump, sono il fenomeno vivente e l’epifenomeno stesso di tutto ciò: insieme rappresentano il magnate e il politico e viceversa. Si impalmano con sé stessi e si mostrano come innovatori di un qualcosa che, in realtà, era già presente ai tempi del reaganismo, dei Chicago boys che facevano i primi esperimenti di neoliberismo su vasta scala.

Le nazioni più forti sul piano economico e finanziario, in questa rimescolanza globale delle competenze tra imprese e Stati, tra consigli di amministrazione e governi, tra presidenti-magnati e capitalisti di nuovo modello, si stanno disponendo alla lotta vicendevole nel quadro di una rimodulazione dei ruoli che permetta loro di fare dell’austerità fiscale, ad esempio, uno strumento molto più efficace di tanti altri sul terreno dell’aggressione finanziaria verso economie di paesi già fortemente strangolati dai debiti esteri. Molti Stati africani, latinoamericani ed asiatici, laddove potrebbero dare seguito a politiche di implementazione delle risorse sociali, sono costretti invece all’assolvimento dei debiti.

Siccome, poi, i soldi non bastano davvero mai quando devi pagare interessi annuali esorbitanti, accade che la stessa scena si ripete un po’ ovunque: per pagare i debiti, i governi locali dipendenti dai grandi potenti imperi globali sono costretti a falcidiare ciò che resta della spesa sociale e, quindi, l’impoverimento della popolazione diviene una costante e non più una variabile dipendente dalle contingenze che si generano tra confronto interno ed esterno al paese. Il debito strangola intere comunità che vedono privatizzati i servizi e la fine di qualunque vecchio fordista monopolismo di Stato.

Si realizza così uno dei cardini del neoliberismo nato sul finire degli anni Settanta del secolo scorso: basta con l’intromissione dello Stato nelle faccende economiche e finanziarie. Sempre e soltanto intromissioni di queste ultime nello Stato che diviene un organismo al servizio del capitale in tutto e per tutto. Ne consegue che, quando ci lamentiamo – e più che giustamente – per i tentativi di strangolamento dei diritti sociali, oltre che di quelli civili che riguardano più le pulsioni retrive delle destre di governo, non possiamo dimenticare ciò che sta a monte di tutte queste politiche di compressione delle libertà.

L’origine è sempre e soltanto l’interesse di classe, il privato, l’esclusivismo mercatista di un capitalismo che, pur nella crescita competitiva che pare destabilizzarlo trova il modo di fare spazio a nuovi settori di offerta, soprattutto in campo tecnologico, su vastissima scala, inducendo nuovi bisogni, e, non di meno, sul piano bellicista con la riconversione di sempre più industrie dalla produzione civile a quella militare.

La relazione che passa, dunque, tra ingovernabilità degli Stati, aumento del disagio sociale e ristrutturazione neoliberista è comprovata, più che da teorizzazioni convergenti e da aumento di indizi, dal fatto che le crisi neopauperistiche sono il frutto delle crisi neocapitalistiche. Quando Trump dichiara la guerra commerciale all’Europa, alla Cina e al quasi tutto il mondo tranne alla Russia e ai suoi alleati più marcatamente sovranisti o “anarcocapitalisti” (Milei c’entra sempre…), impone una accelerazione del tentativo di riunipolarizzare il pianeta sotto l’egida della grande Repubblica stellata.

Il teorema MAGA è, quindi, legato ad una sorta di dittatura della Silicon Valley, di un panorama della tecnologia più avanzata che diviene indispensabile per il resto del mondo: si pensi all’impero muskiano dei satelliti e delle comunicazioni. Oppure al fatto che la maggior parte dei programmi di funzionamento dei più sofisticati aerei da guerra, carri armati e droni sono interamente controllati da Washington. L’Europa, in questo quadro di destabilizzazione organizzata dell’economia e dei rapporti tra i diversi poli di sviluppo, è destinata a subire un ruolo di subordinazione e di dipendenza tanto dagli Stati Uniti d’America quanto dalla Cina.

Non si tratta solamente di dati legati alla grandezza economica raffrontata con le due potenze ri-emergenti. Semmai è una conclusione che deriva dalle potenzialità di sviluppo autonomo dell’Eurozona. Allarmi in questo senso arrivano dal reddito pro capite dei cittadini europei rispetto a quelli americani e cinesi. Bruxelles non ha gioco nella competizione sul prestito di ingenti risorse rispetto al Grande paese che, non solo possiede una maggiore flessibilità fiscale, ma soprattutto ha un altrettanto dinamico mercato del debito sovrano.

Si inserisce in questo filone di ragionamenti il ruolo che, pertanto, avrà il dollaro nella attuale fluttuazione dei cambi: non è un mistero per nessuno il fatto che oggi gli squilibri complessivi del sistema monetario siano legati ad una instabilità borsistica di lungo corso che, in queste settimane, ha conosciuto un’esponenzializzazione con l’introduzione pasticciata – eppure così chiara negli intenti – dei dazi doganali. Ci troviamo – dicono alcuni eminenti studiosi e riviste del settore – in una fase in cui il dollaro, nella competizione con le altre divise importanti, potrebbe perdere il suo primato mondiale.

E non è detto che questa perdita possa essere sintetizzata in un periodo di breve durata, visto che il multipolarismo sembra affermarsi come nuovo vero e proprio “ordine mondiale” in cui Cina e Russia avranno un ruolo chiave. Un esperto del mercato finanziario come Russel Napier ha scritto a proposito che il fallimento di Bretton Woods è oggi più evidente che mai. Del resto, gli stessi accordi appena citati avevano sostituito nel 1945 quelli del “gold exchange standard” che avevano avuto una durata ventennale tra le due guerre mondiali ma che non erano riusciti ad arrivare alle soglie del secondo conflitto.

Il punto di rovinosa caduta degli accordi alla base del neocapitalismo globale a trazione americana del mondo, fu l’indebitamento in cui gli Stati Uniti piombavano ogni volta che foraggiavano di soldi mezzo pianeta per tenerlo sotto il loro controllo. Un imperialismo economico assai costoso che minava alle basi il credito a stelle e strisce. Se dal passato si passa al nostro presente e all’immediato futuro, riesce davvero difficile poter anche solo tentare una predizione su cosa sostituirà cosa: il dollaro andrà in pensione come metro degli scambi globali?

Nel mentre queste domande si possono formulare e lasciare appese alle corde di un destino certamente multipolare e tutto da “stabilizzare” (sempre comunque nella totale incertezza determinata dalle endemiche contraddizioni date dalle ineguaglianze capitalistiche), la crisi multilivello avanza e le risposte come il trumpismo non sembrano affatto quelle adatte a ricomporre i cocci di un mondo in disfacimento.

MARCO SFERINI

17 aprile 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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