Si era chiusa da poco, presso la sua Fondazione milanese, una piccola e preziosa mostra sulla Sfera, l’immagine più icastica e rappresentativa del mondo di Arnaldo Pomodoro (Morciano di Romagna 23 giugno 1926 – Milano 22 giugno 2025): un’invenzione plastica che aveva girato tutto il mondo, e che nel 1967 Ugo Mulas aveva immortalato sulla sommità del padiglione italiano all’Expo di Montréal.
La fama internazionale dello scultore era a quel punto definitivamente acclarata, facendone una delle voci più rappresentative dell’arte italiana, uno dei più presenti nell’immaginario comune, corteggiato dai rotocalchi e saccheggiato dall’editoria scolastica: comparì persino sulle pagine di Topolino, nel 1971.
In quasi un secolo di vita e settanta di ricerca, del resto, Pomodoro aveva attraversato tutto l’arco delle avanguardie del secondo novecento, prendendo le mosse dall’Informale – costeggiando il Nuclearismo e altri sodalizi – per fare i conti col Minimalismo, lambendo la militanza politica negli anni della contestazione, tenendo tuttavia fede a un repertorio di forme e di segni inequivocabili: una crepa aveva come intaccato la razionalità dei suoi lucenti volumi primari, rivelando una vita interna opaca e convulsa.
L’artista stesso, infatti, più volte confessò di aver avuto una folgorazione di fronte alle superfici polite di Brancusi, e di essersi chiesto come potesse presentarsi il loro interno una volta violata quella forma piena e tesa: la lezione di Fontana e delle combustioni di Burri, o l’idea di ferite e penetrare la forma, costante in molti della sua generazione, poteva declinarsi ritmicamente in segni incisi in negativo durante la modellazione, pronti a riaffiorare in fusione dal profondo di un corpo ferito, organico e meccanico allo stesso tempo. Alla metà degli anni Cinquanta aveva esordito nel campo dell’oreficeria insieme al fratello Gio e a Giorgio Perfetti costituendo il Gruppo 3P.
Presto, però, come un antico maestro, avrebbe fatto tesoro della perizia progettuale orafa per compiere un vertiginoso salto di scala, che gli avrebbe consentito di passare dalla scultura monumentale all’intervento architettonico, giungendo persino alla scenografia teatrale, senza tradire mai il proprio lessico fondamentale, con quel tipico segno capace di unire immaginario macchinista e arcaiche risonanze: le sue steli, figlie di uno sguardo acuto verso Klee e Wols, volgevano al passato come frammenti archeologici sequenze e scritture figlie dell’era industriale, in un cortocircuito su cui avevano agito i ripetuti viaggi extraeuropei, recentemente fatti riemergere agli studi, così da unire ricordi dell’antico e slanci avveniristici.
Non per nulla di fronte alle sue piramidi luccicanti e spaccate, nel 1985 Alberto Arbasino, chiosando la grande mostra al Forte Belvedere di Firenze, parlava di un «Retour d’Egypte»: lo stesso effetto che possono sortire le sue grandi sculture inserite nell’architettura contemporanea, ma pronte a reggere il confronto con la storia, come nel Cortile della Pigna in Vaticano. C’era però qualcosa di tellurico, quasi un primitivismo astratto, ribadito da un altro famoso servizio fotografico di Mulas, giocato sul contrasto erotico fra i suoi gioielli-scultura e la pelle color ebano di una modella.
Al contempo, l’idea quasi verbovisiva di una scrittura di superficie, animata da un fittissimo chiaroscuro, deve essere unita a un immaginario cosmico figlio del suo tempo. In quelle forme, dai primi rilievi alle sfere, furono proiettate infatti tanto le aspettative dell’uomo spinto verso lo spazio quanto i timori della minaccia atomica.
LUCA PIETRO NICOLETTI
foto: screenshot tv ed elaborazione propria