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Il portico delle idee

Apollo e Bacco. La supremazia istituzionale della razionalità sulla passione

Molto più rassicurante dell’eccesso è, senza dubbio, una determinazione razionale dell’esistente che incasella, inquadra, classifica, stereotipa anche e che, salvo qualche stortura inevitabile, mantiene sostanzialmente in equilibrio un patrimonio singolare e collettivo di idee, di pensieri, di comportamenti socio-civili-etici in cui si ritrova, praticamente, una sorta di terrestre senso della vita. Si tratta, in sostanza, di un’astrazione antimetafisica, di un riportare l’essere umano entro i confini di un’umanità che è al di sotto della stratosfera e, per usare un metro di paragone molto moderno, ben al di qua del buco nell’ozono.

Non c’è dubbio alcuno che lo spirito apollineo, tramandato da una certa tradizione tragedistica antica dell’ellenismo, viene surclassato da un pragmatismo moraleggiante ma anche molto moralistico nell’essere appunto tale. Se questo sia stato un bene o un male non è così semplice poterlo affermare. Di sicuro Nietzsche ha una pessima opinione di questa “bimillenaria falsità” che è scivolata sul crinale del tempo, nei secoli dei secoli, e che ha tratto direttissima ispirazione dal socratismo e dal platonismo intenti a dare un significato ad una vita che non ha un vero e proprio significato e che, tuttavia, per una logica, naturale, ergo istintiva propensione dell’autocoscienza, è il tema dei temi.

La questione della razionalizzazione dell’esistenza nostra nell’esistente è per Nietzsche una sorta di estremizzazione del comprensibile che, infatti, è limitato esclusivamente al mondo terreno e ad una osservazione dell’Universo che, anche oggi, per quanti passi in avanti siano stati fatti, è parziale sic et simpliciter e, per quanto si possa sperare nei progressi della scienza, non si arriverà mai alla risoluzione del Grande Mistero dell’essere che è e, per come la direbbe Parmenide, non può non essere. La tragedia greca, dunque, passa al mito di Apollo come raffigurazione vampeggiante del Sole e, quindi, dello splendore della seraficità, della serenità, di una compostezza di mente e corpo.

Lo fa dopo essersi situata tra il dionisiaco e l’apollineo: Eschilo e Sofocle danno spazio alle passioni, agli istinti, alle volubilità dell’animo umano che non conoscerebbe confini se non fosse per il giganteggiare di quello che Freud chiamerà il “super-io” e che è il recupero di una cognizione rigidamente data di tutto ciò che ci avviene intorno e che, quindi, ci riguarda in prima persona. Ebbrezza e fuga dalle ricognizioni del possibile e del prevedibile sono, dunque, messe da parte perché si sente, ad un certo punto, il bisogno di ripercorrere la via del concreto e non quella dell’elevazione al di sopra delle mediocrità tutte umane.

Apollo uccide Dioniso (o Bacco…) e l’essenza stessa della tragedia greca viene progressivamente meno, entra in una crisi da cui non si risolleverà. Del resto, è la conseguenza di una società organizzata secondo poteri che danno adito ad un classismo che, a sua volta, influenza le sovrastrutture di allora, ad essere la prima spinta propulsiva che dà seguito a questo radicale mutamento di passo nell’interpretazione commediografica delle singolarità umane, delle stravaganze come dei veri e propri drammi che vi si confondono e che quindi mescolano davvero ogni ambito dell’esistenza di tutti i giorni in seno alle città-Stato, nel novero della civiltà e della cultura di un grande popolo.

Dioniso (Διόνυσος in greco antico) è dio del vino, della vite, ma più arcaicamente è la divinità della linfa che scorre nella natura, nelle piante tutte, nel verde, che nutre quindi l’insieme variegato di una spontanea crescita di ciò che è la vita nella sua più chiara rappresentazione di eterogeneità. In seguito, soprattutto la cultura romana, lo tramutò, proprio prendendo spunto dall’incontrollabile continuo mutare dell’esistente, in un dio incontrollabile, freneticamente inteso come immagine rigogliosa dell’eccesso, dell’ubriachezza e della sovradimensione del presente in cui siamo.

Leggi anche: Apollo e Dioniso, ragione e passione nella tragedia greca

Questo, di per sé, non relativizza la razionalità ma, come è facilmente constatabile, la pone in un secondo piano rispetto alla libera espressione degli impulsi istintivi che non devono venire repressi da un rigido auto-controllo nel nome dell’utilità comune e di quella ricerca del sapere che Socrate aveva affidato alla presa d’atto che molte verità di cui pensiamo di essere portatori sono invece mezzucci con cui ci allontaniamo da una vera presa di coscienza dell’irrisolvibilità di molte domande. Ma il “so di non sapere” non è una presuntuosa affermazione di una verità oltre l’inconoscibilità della verità medesima. Si tratta di una induzione a conoscere oltre la prevenzione mentale data dalle tradizioni, dai preconcetti di tutti i tempi.

Non si discute il fatto che questo esercizio esiga una disposizione del tutto razionale che, tuttavia, non prescinde dalle passioni: ma da quelle finalizzate al miglioramento della vita comune e non delle più singolari passioni istintive del dionisismo che sfociano nella piena libertà di esprimere i propri desideri senza riguardo per le convenzioni sociali, per le leggi date e per norme, regolamenti, predeterminazioni di ogni sorta. Mentre il culto bacchico prevede che mente e corpo vadano di pari passo e che, quindi, quest’ultimo possa essere protesi dello pieno sfogo mentale (istintivo) di ciò che ci riguarda più nell’ombra di noi stessi, il socratismo bada esclusivamente alla psiche.

Potrà sembrare una contraddizione quasi in termini, ma Nietzsche attribuisce a due filosofi dell’animo una colpa esorbitante di razionalismo all’ennesima potenza che soffoca, reprime e uccide la vera essenza umana: il desiderio recondito che viene condizionato quindi dai prodotti di un istituzionalismo della e nella società che è corruzione di quella psiche che non è soltanto, quindi, calcolo delle proprie azioni esclusivamente ricondotte al bene comune, ma che deve poter trovare in un contesto condiviso tutta la sua natura e, pertanto, potersi esprimere senza censure, senza limiti, senza giudizi e pregiudizi.

La tavoletta bronzea ritrovata a Tiriolo in Calabri nel 1640 e contenente il testo del Senatus Consultum de Bacchanalibus

Questa corruttibilità dei più ancestrali istinti dell’animo umano la si riscontra tanto oggi, tempi in cui la cosiddetta “modernità” ha individualizzato l’esistenza nel nome però di una affermazione altamente egotica dell’individuo medesimo, senza quindi un oltreomismo che punti al superamento della astrusa e soffocante normalità umana, convenzianale, iperrazionale e superconformista, quanto nell’antichità immediatamente successiva all’epoca d’oro della cultura ellenica. Tito Livio racconta nella sua monumentale storia di Roma (per la precisione in “Ab Urbe condita“, Libro 39, capitoli 8 – 18) della questione inerente i Baccanali e che ritroviamo anche in un’iscrizione bronzea del 186 a.C. ritrovata a Tiriolo in Calabria nel 1640 (denominata “Senatus Consultum de Bacchanalibus“).

Il racconto descrive con notevole precisione cronachistico-storica il problema in cui incappa il Senato romano allorché deve un argine alla diffusione di un culto che aveva, come conseguenza degli eventi accaduti in Oriente e in Occidente, le guerre contro Cartagine e una espansione dei territori sempre più vasta, un aperto carattere di antiromanità. La conquista della penisola italica da parte di Roma non cambia radicalmente lo stile di vita delle comunità che vi vivono e che, rispetto al passato, ora si trovano anche soggette al dominio del Senato. I baccanali nascono anche in un contesto di nuova urbanizzazione che è un effetto della guerra annibalica.

Gli enormi spostamenti dei rurali nelle città cambiano il connotato stesso di una società che era, se non perfettamente organizzata, quanto meno razionalmente gestita secondo rigidi schemi che non lasciavano spazio a quella soddisfazione degli sfoghi istintuali che i riti bacchici invece sembrano offrire. Si sta parlando di masse di persone frustrate da un classismo di non poco conto che inizia a temere che il culto passi dal suo essere fenomeno prettamente religioso ad una sorta di coagulo di associazioni spontanee di persone che possono mettere in forse l’equilibrio statale e il potere romano. Il mistero dionisiaco è un imprimatur, se vogliamo, un po’ ancestrale dell’organizzazione segreta.

La segretezza è propria del culto stesso e unisce il dio ai suoi seguaci e viceversa. La grande differenza tra il dionisismo e la religione ufficiale dello Stato romano sta nel fatto che il primo non è il prodromo di un potere, mentre la seconda sì. Il primo non fa distinzione di cittadinanza, di rango o di ricchezza, la seconda invece è addirittura praticabile solo dai cittadini romani e distingue rispetto agli estranei all’Urbe. Dioniso è l’immagine stessa della libertà cui anelano i suoi officianti e cultori. Gli dei romani, invece, sono l’immagine della temerarietà e dell’imposizione, della riverenza, dell’obbedienza.

Il razionale coincide quindi con l’utilità comune di una Repubblica romana che è sinonimo di nobiltà, di oligarchia, di alterigia aristocratica. L’irrazionale e l’istintivo invece, se si può semplificare un po’ per comprendere meglio il tutto, possono essere accostati ai misteri dionisiaci che erano, del resto, già molto diffusi in Italia prima della guerra annibalica. Nel 186 a.C. succede, dunque, che questo “sfogo naturale” che molta gente trova nei riti bacchici, e che il filologo irlandese Eric Dodds ha definito come un “impulso irrazionale contagioso” che avrebbe potuto anche dare seguito a manifestazioni di isterismo collettivo, viene represso dal Senato romano.

Dionismo è sinonimo di liberazione; l’ebbrezza conduce all’estraniazione da una società che settorializza, che non lascia spazio alcuno alle passioni più nascoste, ai desideri, alla volatilità dei pensieri e che, quindi, costringe, costringe e costringe ancora a stare entro i termini dati dalla “razionalità” (utilitaristica) della classe dominante. I baccanali sono un elemento destabilizzatore perché liberano, seppure temporaneamente, l’essere umano – cittadino o servo dello Stato romano dalla sua condizione sociale e lo portano al livello di percezione della sua specificità, privandolo finalmente dei lacci a lacciuoli conformistici.

Prontamente, quindi, arriva la repressione penale al servizio di una moralità che risponde alle esigenze della classe dominante. Oggi come duemila anni fa…

MARCO SFERINI

28 settembre 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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