Antologia di Spoon River

Errare per vagare, per dirigersi qua e là “sanza meta“, come avrebbe detto Brancaleone per non essere seguito da compari straccioni fino ad Aurocastro. Oppure errare nel senso di...

Errare per vagare, per dirigersi qua e là “sanza meta“, come avrebbe detto Brancaleone per non essere seguito da compari straccioni fino ad Aurocastro. Oppure errare nel senso di sbagliare, di commettere appunto un errore e, dunque, incappare, comunque, nella strada sbagliata. Chi può veramente dire quale sia il significato giusto di una parola? Il contesto? L’esistenza che lo rende in qualche maniera utile alla bisogna? Adoperiamo le parole così come le impariamo e, spesso e volentieri, le utilizziamo senza interrogarci sulla loro etimologia. Viviamo e ci lasciamo vivere senza farci troppe domande.

Per indolenza? Per spossatezza rispetto a tutte le lotte che la vita ci impone? Tanto per citare un altro mostro sacro della commedia italiana, Nino Manfredi, in un celebre film di Luigi Magni che, naturalmente, non poteva non trattare di episodi risorgimentali, il monsignore che interpreta, rivolto ad un giovane in cerca del suo innamorato tenuto nascosto per evitargli la ghigliottina, sentenzia dolcemente: «A more’, la vita è ‘na lotta!». Pare strano, ma finché si è vivi non fa l’effetto che si ha quando si è morti. Dice… ma tu che ne sai… Mica sei morto.

E chi ve lo dice? Moriamo un po’ tutti a stento, giorno per giorno, se ci lasciamo vivere e niente di più. Non che si debba pensare di dover fare capriole di gioia e tripli salti (mortali) per la contentezza di un qualcosa che non c’è o non ci riguarda direttamente. Alla ricerca di un senso dell’esistenza, non pensiamo quasi mai al fatto che il senso potrebbe stare proprio nel non-senso. Perché, dunque, cercare ciò che è impossibile trovare? Perché i vivi si possono dare pace, mentre ai morti tocca, come recita il proverbio, giacere. Qualunque cimitero di provincia regala questa sensazione: siamo da due parti della stessa barricata.

Il confine è ben poca cosa: un attimo, un soffio di secondi, un istante che si propaga in quella che pretendiamo essere la giustezza della vita eterna. Il timore della morte è reconditamente ancestrale, istintivamente insito nell’essenza del vivente che, in quanto tale, è dunque anche morente. In quei vecchi cimiteri di provincia, dove le tombe sono ricche, oltre che di muschi ed edere, anche di epitaffi che ricordano ciò che i morti furono da vivi, c’è già quella poesia dell’insondabile mistero dell’oltretomba che non si vede. Lo si immagina: dall’Ade dei greci antichi ai giardini celestiali o ai paradisi di altre religioni, ma monoteiste.

Ogni lapide è un pezzetto di vita. Paradossale? Ma è così. Per quanto la morte circondi ogni singola esistenza che non è più tale e pietre ed urne pesino sui corpi e sulle ceneri dei corpi non dimenticati dagli affetti più cari, c’è un pizzico non tanto di vitalità ma di esistenza. Il morto è inarrivabile nel momento in cui diventa tale. Si separa da quello che piace considerare il “mondo dei vivi” e parla un’altra lingua, si esprime altrimenti rispetto a noi. Prendiamo, ad esempio, William Goode: lui si racconta mentre errava, vagabondava, girovagava senza scopo. Apparentemente.

Caso mai qualcuno si fosse perso come lui nel bosco, avrebbe compreso che invece quello scambiato per gironzolio a casaccio era invece la ricerca, con tanto di zelo appresso, della giusta via d’uscita dal buio selvatico. Ecco qui! Errare non è soltanto sinonimo di sbagliare nel vagare o di aggirarsi nell’errore senza meta alcuna. Semmai è il contrario: ingannevole, può darsi, ma pur sempre ricerca della retta strada su cui incamminarsi per tornare a casa. Dovunque, proprio dovunque indicasse la luce della Via Lattea, là accanto agli ultimi alberi del bosco accanto al guado.

Guadare: attraversare. La vita con le proprie parole, con i propri istinti primordiali e con tutti quelli che reputiamo tali e che, invece, sono soltanto acquisizione – magari pure empirica – della conoscenza data dai fatti e dalle circostanze che sono dure – loro sì – a morire. Edgar Lee Masters potrebbe benissimo riscriverla oggi, se fosse vivo, una nuova “Antologia di Spoon River” (Einaudi, 2014, nella traduzione prima di Fernanda Pivano e con preziose annotazioni di Cesare Pavese e Guido Davico Bonino), attingendo dalle tante storie che sulle lapidi non si leggono più ma che sono, nonostante tutto, una eco neppure tanto lontana delle vite informatizzate di oggi.

In un’epoca così freneticamente dedita alla fuga da tutto e da tutti, primariamente dalla necessità del dover pensare, gli epitaffi che noi potremmo scrivere sulle nostre tombe sarebbero gli epigoni sbiaditi di quelli della provincia americana del primo Novecento. Noi potremmo scrivere delle nostre paure, delle nostre ansie, di tante tragicomiche situazioni fobiche che questa società del paranormale e del paragnostico senso tecnologico di onnipotenza intuitiva e onnisciente ci induce a provare, sfuggendo così al presente. La proiezione nei drammi del passato o nelle angosce del futuro ci totalizza.

Siamo nella valle della vampirizzazione di noi stessi e le nostre tumulazioni sono già scritte dentro la morte quotidiana che proviamo ogni volta che l’orrore del mondo rischia di prevalere su quella punta estrema di positività che tentiamo di recuperare dalle speranze che, tutto sommato, valga la pena vivere per provare ogni tanto qualche piacevole sensazione. Ma dovremmo, per questo, fingerci morti? Lasciarci andare alla rassegnazione e non accorgerci più della straordinaria bellezza del cosmo, della sua affascinante ipotizzabile infinitudine? Oppure dovremmo fingere di non meravigliarci davanti ai tanti geometrici spettacoli floreali, della Natura tanto madre e molto poco matrigna?

Nel momento in cui diventiamo pessimisti al punto da non avere più speranze, noi siamo già gli epitaffi di noi stessi: un nuovo Masters ci recuperi da questo rigor mortis autoindotto e ci faccia sentire tutto il peso di un’esistenza che pare raccontabile – oggi come ieri, ma con un lembo di lacrime in più – attraverso il presente discorsivo di una extradimensionalità in cui i trapassati sono presenti a sé stessi e parlano mediante le parole scolpite sulla pietra. Perché abbiamo perso l’uso di raccontare ai vivi veri la nostra vita di vivi passati?

Un nome, un cognome, una data di nascita e una di morte. Niente di più? Qualcuno sulle piccole, quadrate lapidi dei cimiteri sempre più moderni mette una piccola frase… Non un epitaffio, ma un ricordo che noi poniamo a suggello dell’inscindibilità del rapporto tra chi resta e chi se ne va. Quando Fernanda Pivano, ma prima ancora Cesare Pavese, scoprono l’eccentrica genialità dell’antologia di Edgar Lee Masters, non sanno forse ancora di rivoluzionare un po’ la letteratura occidentale e, nello specifico anche quella italiana.

Sono tempi bui: siamo nel 1943 e si può pubblicare solo grazie a qualche strategemma. Tipo quello di intitolare le poesie come se fossero una raccolta di scritti di un santo (“Antologia di S. River“). Ci si mette poi anche il buon costume, il pudore che si frappone tra il lettore e la copertina considerata sconcia. Ed allora cambiala per poter far leggere al maggior numero di persone, in quegli anni così reprobamente fascisti, bellici e omicidiari. Lo stile di una poesia che è qualcosa di meno dell’essere tale e qualcosa di più della prosa (la definizione è dello stesso autore), incanta e rende il rapporto con i defunti e con la morte un tema da riconsiderare appieno.

E chi aveva mai pensato che i morti potessero esprimersi così? Certo, c’è chi ha tentato innumerevoli sedute spiritiche, contatti medianici di ogni tipo per connettersi con l’Aldilà, ma niente di tutto questo era mai stato tentato prima. I morti raccontano le loro vite nella piccola provincia di un grande impero che sta conquistando, piano piano, il mondo intero. Francis Turner fa riferimento al rimpianto giovanile di non aver potuto né correre e né, quindi, giocare: la scarlattina glielo aveva impedito. Poi un amore, un bacio che ha qualcosa di dantesco: tra le “pergole addolcite da viti” e, immantinente, il soffio vitale sparisce. Non c’è tempo per recuperare un sentimento. La morte è fatale. E le ammonizioni dei defunti sono altrettanto.

Griffy il bottaio, a chi passa tra i filari di alberi e le file di tombe, sembra dimenarsi e gridare: «Siete sommersi nella vostra tinozza / tabù e regole e apparenze sono le doghe della vostra tinozza. / Spezzatele e rompete l’incantesimo di credere che la vostra tinozza è la vita, e che voi conoscete la vita!». Microcosmi di provincia e micromondi nel microcosmo. Ognuno di noi ritiene di vivere l’esistenza che più gli è congeniale, nonostante le mille storture e contraddizioni che gli si presentano innanzi. Obbediamo alle tradizioni, ci genuflettiamo davanti alle ritualità laiche e sacre. Il senso dell’esistenza pare essere tutto e soltanto sotto la cupola dell’atmosfera terrestre. Oltre è l’universo del Mistero e il mistero dell’Universo.

Ci siamo immortalati in una continuità esistenziale che affidiamo ad una umanità che non ha soluzione di continuità nel suo essere, quindi nel suo prodursi e riprodursi. Chi nasce, chi muore e in mezzo il presente di chi vive e poi sarà affidato al passato come morto o al futuro come vivo che deve ancora crescere e affrontare la lotta. Sembra, davvero, un fare per il fare, un “tanto per fare” (CB). Spoon River è l’inesistente cittadina che condensa le esistenze passate e presenti, coeve all’autore, di una galleria di personaggi che dimostrano la loro unicità attraverso pochissime espressioni. Noi finiamo per sapere quasi tutto di chi sta sotto quelle lapidi da una breve descrizione di ciò che facevano quando erano vivi.

Non occorrono lunghi racconti. Ogni epitaffio è un poema inscrivibile, perché altrimenti non sarebbe più un cenno poetico e non sarebbe più nemmeno un tentativo di prosa. Le pagine scorrono e si viene presi dalla voglia di leggere ancora una di quelle scritte… proprio come se fossimo davanti a lapidi vere, in un vero viale di un cimitero dove regna il silenzio e si sente cinguettare qualche uccellino primaverile. Straordinaria forza lirica in un’opera che rimane davvero un unicum nel suo genere. Righe che passano dall’essere quelle stampate del libro a quelle immaginate scolpite nella durezza della pietra.

Potenza evocativa di grandi sentimenti e passioni che non finiscono con il termine temporale dell’esistenza. Libertà, uguaglianza, fratellanza, determinazione a rivendicare i propri diritti perché il senso dell’esistenza è privarla di un senso assoluto ma regalarle un significato qui ed ora nel mentre la vita c’è e deve poter essere degnamente vissuta. Così, John Hancock Otis: «E io ti dico, Spoon River / e dico a te, Repubblica / guardatevi dall’uomo che sale al potere / e una volta portava una sola bretella». I guai del mondo dei vivi riletti dal mondo dei morti che, proprio perché non hanno più nulla da perdere, finalmente possono parlare chiaro, senza più infingimenti, metaforizzazioni false e cortesi, inchini ruffiani o, più banalmente, con l’ignoranza comoda di chi detesta sapere.

Sapere cosa? La verità sulla propria incoscienza. I morti che parlano così non daranno i numeri per vincere al lotto, ma sono una ricchezza maggiore del vile e volgare denaro. Sono la rivincita di sé stessi e un po’ anche di noi che un giorno saremo non essendo (chissà…).

ANTOLOGIA DI SPOON RIVER
EDGAR LEE MASTERS
EINAUDI, 2014
€ 14,50

MARCO SFERINI

9 aprile 2025

foto: particolare della copertina del libro


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