Può essere la paura della morte fondamento di un’esistenza che punta all’accaparramento di beni e al mantenimento anche del potere quasi fossero entrambi un esorcizzazione della finitudine dell’esistenza?
Secondo Tito Lucrezio Caro sì e si situerebbe proprio in questo timore tutta una serie di passioni che condurrebbero all’eccesso in diverse direzioni: la bramosia del vivere si esprimerebbe nell’ansia di non poter più vivere un giorno, di una mortalità completa, in cui sopravviva praticamente nulla di noi e, dunque, il fare di questa esistenza qui ed ora un qualcosa di assolutamente godibile, prescindendo dalla virtù richiamata – ad esempio – da Seneca, diverrebbe una sorta di imperativo categorico ante litteram.
Lucrezio è un epicureo, un veneratore vero e proprio del maestro della Scuola del Giardino, e trasfonde tutto lo scientismo possibile che ne viene dall’osservazione della materialità delle cose e dell’esistente in quella che è la sua opera più famosa e tramandata: il “De rerum natura“.
Siamo innanzi ad un poema didascalico, ad un qualcosa di nuovo che, tuttavia, nella Roma del primo secolo avanti Cristo si era già potuto intravedere con autori che la letteratura seguente considererà minori ma che, probabilmente, avranno suggerito anche al Nostro un viatico nell’esposizione di temi che, all’etica-politica ufficiale non saranno poi piaciuti così tanto.
Non meno famoso di Lucrezio, per l’appunto, è Empedocle di Agrigento, ammirato dall’autore del “De rerum natura“, compositore di opere in esametri (tra le quali il celebre “Carme lustrale” nel V secolo a.C.), ma per passare di secolo in secolo ed avvicinarci al periodo augusteo, persino Cicerone aveva tradotto in latino l’opera di Arato e la poesia e la prosa cosmologica e naturalistica erano penetrati nella cultura romana per molte strade diverse eppure anche convergenti.
Non ne era proprio nato un genere a sé stante e riconoscibile, ma esisteva una approssimazione in merito; quindi la possibilità di trovare nelle biblioteche manoscritti che avessero se non l’esatto tratto, la fisionomia di quello che sarà l’emblema rappresentato dal poema lucreziano.
Rileggendolo con una disposizione d’animo di abbandono nei confronti della Natura, di comprensione di noi stessi entro la sua maternità (o matrignità a seconda delle interpretazioni un po’ meno benevole sul rapporto tra l’antropocentrismo e il resto della vita sul pianeta Terra) ci si accorge che molti dei concetti dell’epicureismo vengono sviluppati con singolarità e la sostanza tematica della filosofia diviene l’ispirazione per una apertura più attuale e moderna del pensiero ellenico, compenetrando molti ambiti della vita dell’Urbe e del suo vasto impero.
Partendo dal tema riguardante il linguaggio, Lucrezio ne pone l’origine nell’ispirazione data dalla Natura e non invece da Ermes, come vuole la tradizione religiosa.
Non sono nemmeno i filosofi o i saggi coloro che hanno sostenuto l’esigenza di ricorrere alla comunicazione verbale e poi alla scrittura per aumentare le potenzialità dell’umanità e l’armonia del suo vivere in comunità sempre più diffuse, consistenti e anche dominanti le une sulle altre. Lucrezio rivoluziona il punto di vista: siamo spinti a comunicare perché è naturale che sia così. Si tratta di un’esigenza dettata dall'”utilità“. Non che non si debba filosofeggiare in merito e porsi mille domande: ma alla fine – sostiene il Nostro – l’essere umano parla e scrive perché ha sentito il bisogno di interagire e non di chiudersi nella solitudine singolare nella notte dei tempi.
La spiegazione “scientifica“, dunque, è molto materiale, ma è ovvio che debba essere così.
Non c’è nel naturalismo scientista dell’epicureismo una ostinazione a voler confutare sempre e comunque le vecchie credenze; non c’è, quindi, un atteggiamento dogmatico al contrario, un innovazione che nega la tradizione. Semmai, proprio perseguendo il disegno di svelare agli esseri umani come si possa raggiungere uno “stato di tranquillità” ideale (e dunque letteralmente “pratico“, da praticare ogni giorno della propria vita), si suggerisce che gli dei, proprio per la vita beata che fanno, non si affannano a curarsi degli esseri umani e, dunque, non bisogna affatto temerli.
Cosa mutua dunque Lucrezio da Epicuro? Tutto? O un tutto in parte? Di sicuro non è la quantità del pensiero del filosofo di Samo, ripetuto e tramandato,

Concetto Marchesi
che interessa: ma è la qualità o, per meglio dire, ciò che si è voluto riprendere compiutamente.
Insomma, per farla breve e per dirla con le parole di Concetto Marchesi, «Lucrezio ripeté da Epicuro il detto che la scienza rende l’uomo felice: ma la scienza non poté dare neppure pace al suo animo torbido e al suo corpo malato. Sapere di che si soffre non esclude il soffrire» (“Storia della letteratura italiana“, 1947).
La dottrina epicurea probabilmente regala all’autore del “De rerum natura” un’anestetizzazione riguardo il male di vivere, il tormento dell’insignificanza di un’esistenza che non era nemmeno svelata dalla morte e che non trovava un riscontro, in questo senso, nemmeno nelle reminiscenze della nascita e dell’infanzia. Marchesi si lascia andare ad una ipotesi ardita eppure molto affascinante sulle percezioni lucreziane: probabile che egli nella finitudine decretata dalla cessazione del vivere, che in molti ritengono un passaggio, un “trapasso“, leggesse un’eccezionalità della Natura.
Non tanto come caratteristica tipica dell’animale umano, del senziente in senso lato; quanto semmai come parte di quella oggettiva mutazione continua della materia di cui si è tutte e tutti parte e che, quindi, la morte fosse una cesura netta che, nonostante il mistero che le rimane avvinghiato attorno, restava anche intrisa di un alone di incoscienza, di incomprensione proprio constatando che le spoglie, i cadaveri, degradandosi, non scomparivano come per incanto, ma si trasformavano in altro rientrando nel complesso gioco delle mutazioni dell’esistente.
Dalle stelle arriviamo alle stelle torniamo, visto che di quella materia noi siamo formati e visto che o per terra o nell’aria prima o poi ci disperdiamo… Un concetto un po’ più laico del biblico «Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris» (Genesi, 3,19).
Ma la sostanza, è proprio il caso di dirlo, non cambia di molto e non è di conforto sapere che un giorno non ci saremo più e che questa nostra autocoscienza che ci fa scrivere queste righe non esisterà, sarà irrintracciabile se non come memoria di ciò che è stata: magari proprio grazie a questi pensieri messi nero su bianco grazie ad una moderna tastiera di computer.
Dunque, Lucrezio comprende che non c’è consolazione nell’apprendere come stanno le cose, come si muove il mondo, quali leggi segue la trasformazione naturale del tutto e del particolare in esso. Alcuni critici letterari e, non di meno, anche alcuni storici del pensiero filosofico e scientifico si sono posti la questione se, sotto l’atarassia epicurea di Lucrezio non si celasse la più cupa delle disperazioni. Ci permettiamo di ritenere che forse era proprio così.
Però, rispondere all’angoscia della consapevolezza dell’insensatezza della vita e della sua caducità, della sua fine anche piuttosto incedente per tante e tanti, con una angoscia strutturale, quotidiana, con una depressione della psiche che non faccia altro se non alimentarsi ed alimentarci in una marcescibile autodistruttività, non ci permette nemmeno di rendere giustizia al breve tempo che ci è dato di avere per tentare di uscire dal possibile e dal concreto ed elevarci oltre la natura stessa delle cose proprio grazie ad una simbiosi sempre più radicalmente intrinseca con la Natura.
Il distacco che poniamo tra noi e il limitrofo, mettendoci a capo di un mondo che non abbiamo creato e che trasformiamo, era dopo era, secolo dopo secolo, in qualcosa di altamente “immondo” e “innaturale“, ci fa vivere un’esistenza in cui il senso forse esiste ma è microscopico.
Invece di osservare con ammirazione la capacità della materia (e quindi della Natura) di arrivare al punto in cui siamo arrivati noi, all’autocoscienza, alla consapevolezza dell’esistere nell’Essere, nell’Universo Grande Mistero, ci dirigiamo sempre nella soddisfazione di piccoli bisogni, di passioni molto fugaci e molto materiali.
Qui non si tratta di stabilire una sorta di gradualità nel tenere in conto o meno della cosiddetta “etica dell’esistente“, semmai di fare dell’apporto scientifico alla filosofia un punto primario per consentire una conoscenza completa o che, comunque, tenda ad una maggiore completezza rispetto a quella fornita esclusivamente dalla credulità indotta dalle religioni.
Nel “De rerum natura” Lucrezio descrive moltissimi fenomeni che concernono le mutazioni biologiche, quelle dell’ecosistema, del cosmo. Per tutte queste meticolose dissertazioni c’è una attenzione davvero molto accurata, al fine non di esaltare la scienza in quanto conoscenza inequivocabile e incontestabile, ma farne semmai il presupposto della confutazione, mediante l’osservazione pratica e oggettiva, sperimentata quindi più volte, delle credenze popolari affidate all’iperuranicità di un mondo inesistente: sia esso l’Olimpo o qualunque altra immaginaria sede, sopra o sotto la terra che riguardi spiegazioni dei fenomeni naturali non altrimenti rimandate all’empirismo.
La polemica di Lucrezio, dunque, è quanto di più radicale si possa trovare, rispetto alla metafisica dell’epoca (inconsapevolmente tale), e ottiene non lo scopo, ma bensì una conseguenza tra la altre: la formulazione involontaria di un principio etico della scientificità delle argomentazioni. Per cui non si può accusare la conoscenza di essere eretica, di contravvenire alla religione o di essere offensiva nei confronti delle stesse divinità del momento. Questo perché è osservazione oggettiva e puntuale di ciò che accade e che, quindi, non è ascrivibile ad una volontà ultraterrena, ma ad una serie di cause ed effetti che riguardano l’esistente.
Il contrasto con la società romana è quindi quanto di più lapalissiano si possa dedurre dallo sviluppo del poema lucreziano che è, quindi, un cantico dell’epicureismo in tutto e per tutto. Lo si potrebbe definire un archetipo dell’eterna disputa dialettica tra fede e ragione, tra metafisica e fisica, tra irrazionale e razionale e, in quanto tale, non poteva che essere, per l’epoca in cui si sviluppò, destinato alla sconfitta sul piano della diffusione della conoscenza e della consapevolezza della natura dei fenomeni.

Friedrich Engels
Ed è piuttosto interessante, sulla base di queste considerazioni, prendere in esame ciò che Friedrich Engels scriverà nella sua “Dialettica della natura” del 1882: «…qualunque sia il modo in cui è sorta, la natura, una volta formata, è rimasta per tutto il tempo della sua esistenza…». Lucrezio osserva proprio questo: l’essere fuori dal tempo dell’esistente, oltre i concetti umani di presente, passato e futuro.
C’è qualcosa in queste osservazioni che prescinde dalla faciloneria con cui si attribuisce ad uno o più dei la ragione di tutto ciò che esiste. C’è una voglia di sapere per calmare le inquietudini e, al contempo, essere consapevoli che queste permarranno in forma di dubbio. Ma, almeno, potremo evitare il timor di dio e tanti sensi di colpa per fenomeni che sono naturali e non dipendono da noi umani né tanto meno dalle volontà ultraterrene. Altra cosa sarà, pochi secoli dopo, l’inizio dell’antagonismo tra il creazionismo delle religioni monoteiste e i princìpi del metodo scientifico che proveranno a mettervisi di traverso.
Il merito indubbio di Lucrezio è stato quello di affermare una ricchezza critica che ha superato i secoli ed è arrivata fino a noi permettendoci di non partire completamente da zero nella formulazione delle analisi scientifico-naturali più moderne, ma potendo chiaramente affermare che qualcuno, già duemila anni fa, aveva compreso che la materia non era solo materia ma conteneva la vita, la coscienza, l’autocoscienza.
MARCO SFERINI
12 ottobre 2025
foto di copertina: screenshot ed elaborazione propria
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