Antica e immateriale, moderna e materiale interpretazione dell’alienazione

La riduzione moderna del concetto di “alienazione“, in particolar modo negli ultimi cento anni, appena qualche decennio dopo la morte di Karl Marx, si è fondamentalmente concentrata su un...

La riduzione moderna del concetto di “alienazione“, in particolar modo negli ultimi cento anni, appena qualche decennio dopo la morte di Karl Marx, si è fondamentalmente concentrata su un riferirvisi riguardo a quella separazione tra l’essenza umana e la spoliazione della stessa nella realizzazione complessa del processo produttivo capitalistico. In pratica, l’alienazione è stata studiata come fenomeno prettamente socio-economico, con una predisposizione dei filosofi e, ovviamente, degli economisti a preferire l’inclinazione più materialistica a discapito di quella più soggettivamente spirituale.

Se esiste un termine capace di descrivere due stati molto differenti, quasi una dicotomia tra l’essere e il non-essere, tra il prodursi comunque in una qualche forma di elevazione spirituale e l’opposto annientamento estraniatorio imposto dal capitale, questo termine è, nel corso della sua lunga storia, proprio “alienazione“. La ricerca delle ragioni di un passaggio così prepotente dall’alienazione immateriale a quella propriamente materiale è in divenire ancora oggi: si vanno ad indagare antropologicamente una serie di sviluppi evolutivi che hanno fatto retrocedere le tipicità singolari, le capacità umane anche in senso lato.

Scrivono Horkheimer ed Adorno: «gli uomini pagano l’accrescimento del loro potere con l’estraniazione da ciò su cui lo esercitano» (“Dialettica dell’Illuminismo“, 1947). Maggiormente si afferma una complessità sociale, attraverso la divisione delle classi e la violenta interazione fra loro, che sembra tendere ad una irrefrenabile esponenzializzazione, più si amplifica il perimetro dell’alienabilità di ciascuno e, in una sorta di junghiano “inconscio collettivo“, di quelle che un po’ indistintamente e grigiamente definiamo “le masse“.

Data per certa è la condivisione tra i pensatori moderni di questo spostamento di senso dell’alienazione, della sua percezione singolare e comune: riguarda, prima del rapporto tra sé stessi e il superiore, il metafisico, l’impalpabile e l’altro da noi, proprio i rapporti produttivi e, quindi, è istruita da una strutturalità economica che sembra dominare inveteratamente il mondo. Non prima sul piano temporale, ma certamente ugualmente importante, anche se ritenuta più banale, forse perché più semplice da comprendere, è l’alienazione in chiave prettamente giuridica.

L’alienazione di un bene è il trasferimento dello stesso da una proprietà ad una altra, dalla persona A alla persona B. Gli antichi romani parlavano di “alienatio sacrorum” quando intendevano riferirsi alla rinuncia ai riti della propria famiglia da parte di un cittadino che passava ad un’altra famiglia. Oppure, scorrendo le opere di Cesare e di Tacito, si incontra anche l'”alienatio exercitus“, facilmente traducibile in “diserzione“. Insomma, l’alienazione era e per molto tempo è rimasta sinonimo esplicito di abbandono, rottura, cesura, fine di un qualcosa e incominciamento di altro.

Che il futuro dell’alienazione fosse nella “filosofia sociale” è dato per assodato ormai. Che potesse essere un altro il destino di questo concetto così studiato ed elaborato è, di fronte alla cruda realtà dei fatti, un costrutto mentale del tutto artificioso e, francamente, molto poco utile alla dialettica del pensiero e di questo con la materialità dell’esistente. Nel tentare una ricerca, non propriamente storica – anzi, si potrebbe dire, quasi “anti-storica“, visto il suo temperamento piuttosto critico – , sul tema dell’alienazione, non può sfuggire qualche parallelismo con nuove concezioni del reale.

Dal superamento del pragmatismo, del neo-idealismo hegeliano, nonché dell’intuizionismo bergsoniano, emerge nei primi decenni del Novecento una differente declinazione della separazione di ciò che siamo intrinsecamente da ciò con cui ci rapportiamo giorno per giorno. L’alienazione, quindi, diventa un tema su cui convergono, e divergono anche, le opinioni di numerosi studiosi del pensiero e dello sviluppo umano. Riprendendo ancora Horkheimer, questa volta a riguardo della già citata “filosofia sociale“, si viene incontro a descrizioni della stessa come «interpretazione filosofica del destino degli uomini, non in quanto meri individui, ma quali membri di una comunità».

L’alienazione sopravvive in questa diversificazione del pensiero filosofico moderno, a cavallo tra neo-realismo e seconda metà del Secolo breve, perché riguardava e riguarda ancora una attitudine di estraniazione che concerne l’insieme della società o, per lo meno, grandi gruppi sociali (come il mondo del lavoro studiato da Marx ed Engels) che si confrontano con uno sviluppismo irrefrenabile che riduce le caratteristiche fino ad allora contemplabili nell’essere umano e lo trasforma in altro da sé stesso. Si sente spesso affermare che la depersonalizzazione è figlia di un modernismo che ha accelerato notevolmente nel corso degli ultimi due secoli.

Protagonista di questo passaggio dal ruolo (e dal concetto che ne derivava) di alienazione spirituale e introspettiva ad alienazione mentale, materiale ed economica, è per l’appunto il sistema di produzione capitalistico. Qui siamo, oramai, tanto, tanto distanti da Rousseau dell'”altro generalizzato” e della puntualizzazione del rapporto nuovo tra essere umano e collettività sociale. Sebbene il filosofo ginevrino non abbia mai parlato nelle sue opere di “alienazione“, si può dedurre che di questo si tratta quando nel “Discorso sull’origine della disuguaglianza” fa esplicito riferimento al rapporto contraddittorio e sempre più limitante tra individuo e società.

Quando la «stima del pubblico divenne un valore» per chi faceva arte, per chi ballava, recitava, declamava poesie e si metteva in bella mostra, quando la considerazione degli altri fu così importante, ecco che il seme della diseguaglianza viene per Rousseau gettato sul terreno dell’epoca moderna. Si tratta, né più né meno della nascita di un “conformismo” antisociale ma anche anti-individuale, perché costringe ognuno a divenire altro da ciò che era prima o che pensava di poter essere semplicemente mettendo all’opera le proprie qualità. Si rischia, così, di non recitare più il piacere di farlo, ma solo per ottenere più pubblico di altri.

Ed è quello che, anche oggi, continuano a fare tantissime persone che, quindi, si alienano da sé stesse in una più generale e vasta alienazione di massa operata dall’induzione a ritenere questo piuttosto che quello, a seguire la moda, a non deviare dal costume del momento (non solo stilisticamente inteso). Prende avvio qui la critica giusta di un appiattimento dell’essere pensante non tanto sul proprio pensiero, bensì sul dettato comune che è influenzato, quasi sempre, dal potere e dalla corruzione che questo esercita in seno alla società.

Come sprofondando in una rassegnazione imperturbabile, Rousseau ne ricava la convinzione (ma momentanea) che quell’appiattimento, quella forma di alienazione è irreversibile.  Non sarà così e alcune distinzioni si ritroveranno già nel “Du contrat social: ou principes du droit politique“. L’alienazione, quindi, non è una un crudo realismo immutabile che si ripropone in termini e forme differenti qua e là per il mondo. Si può conoscere, distanziare da sé stessi cambiando però – dicono Marx ed Engels – i rapporti di forza sociali. Senza un intervento nella materialità delle cose, anche le perturbazioni coscienziose (o incoscienti) non hanno speranza di mutare.

Un principio di coscienza critica e sociale è alla base della comprensione del fatto che l’alienazione non è soltanto più un prodotto della società latamente intesa o di un singolo potere, ma è propria di un modello produttivo che può essere superato e, dunque, anche quel tipo di alienazione è oltrepassabile. La profonda dicotomia tra l’essenza umana e la sua grande capacità autocosciente che si è, almeno nell’epoca della rivoluzione industriale, riprodotta nel progresso scientifico e nell’accelerazione produttiva a tutto tondo, è uno dei temi su cui riflette con grande acume uno dei più grandi pensatori tedeschi moderni: Günther Anders.

La possibilità che ha l’essere umano di dare all’invenzione un carattere continuamente innovativo finisce con l’entrare in conflitto con la difficoltà dell’uomo medesimo di limitare la portata di ciò che crea. Per “portata” leggasi: tutti gli effetti determinati non solo dalla fase finale del prodotto, ma pure da quella iniziale. Questa idiosincrasia è inevitabilmente produttrice di una “scissione” che è la moderna alienazione tra creatore e creato, intendendo il tutto nel più ristretto mondo del capitalismo che interessa l’esistenza di miliardi e miliardi di individui e di altri esseri viventi vittime dell’antropocentrismo.

Ciò che noi siamo in grado di produrre non solo sfugge alla naturale volontà del lavoratore, che è e rimane un essere comunque pensante e cosciente per quanto alienante possa essere la mansione che svolge per conto del capitalista, ma lo pone in uno stato di completa impotenza riguardo le conseguenze di azioni che sono sue ma di cui non può essere ritenuto responsabile. Alienante, dunque, è non soltanto il luogo di lavoro ma anche l’estraniazione cui si viene sottoposti nell’essere causa di un effetto su cui non si ha nessuna possibilità di agire: né in senso positivo, né in quello negativo.

Anders, lamentava Hannah Arendt nei suoi ricordi d’epoca dopo il divorzio dal filosofo, nutriva un pessimismo verso la modernità e la società che ne era venuta fuori tale da essere addirittura coniugalmente insopportabile. Tuttavia quando gli venne chiesto se fosse il caso di lasciare a quest’essere umano così alienato dalle sue stesse potenzialità creatrici un briciolo di speranza, rispose tutt’altro che pessimisticamente: «Che cos’è in definitiva la speranza? Il credere che la situazione possa migliorare? O è la volontà che la situazione migliori? Non si deve dare speranza, si deve impedire la speranza. Poiché a causa della speranza nessuno agirà».

La tendenza all’alienazione è, in un certo qual modo, insita nell’essere umano: pare che ne abbia quasi bisogno, per superare il limite del possibile, per entrare nella quinta dimensione dell’irraggiungibile che è sopportabile proprio perché vi si anela di continuo, come si ha fame d’aria nel momento in cui viene a mancare; come si ha bisogno della luce quando tutto intorno è rimane buio. La scissione che operiamo tra noi e il mondo che ci creiamo (e che siamo costretti a subire per scelte di altri), e che Anders riassume nel concetto di “Diskrepanzphilosophie” (“Filosofia della discrepanza”), è una capacità tanto di costruire quanto una incapacità di distruggere.

Siamo bravi – asserisce Anders – a dare vita a qualcosa di straordinariamente potente che ci può annichilire a milioni, come la bomba atomica; siamo mediocri nel non riuscire a mettere fine al processo per cui, anche alla distruzione di tutti questi arnesi omicidiari di massa, saremmo sempre in grado di costruirne di nuovi. L’alienazione qui è quasi masochismo imperterrito, determinato da rapporti di potere che ci fanno prescindere dalla nostra volontà individuale. Il salto di qualità negativa dall’alienazione intrinsecamente emotiva, spirituale e metafisica verso quella materiale e sostanziale, è compiuto.

Ci siamo alienati da noi stessi e abbiamo dato seguito a cortocircuitazioni temporali per cui non esiste una un vero stato di pace nel mondo, proprio perché la capacità di ridare vita alle guerre, nel nome del profitto e dell’interesse superiore di un popolo rispetto ad un altro, di un interesse economico piuttosto che di un altro, non viene meno e la riproducibilità dei caratteri primi dell’alienazione nemmeno. Assale una profonda angoscia se si pensa in termini così pessimistici, ma è bene, ogni tanto, riflettere anche su questo versante, evitando così di illudersi che gli alieni siano altrove, su mondi lontani e pronti a venirci a fare visita.

Gli alieni, o meglio gli alienati, siamo noi.

MARCO SFERINI

1° giugno 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Il portico delle idee

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