Nello smarrimento del tempo presente il 9 maggio è diventata una ricorrenza con cui la nostra società politica e civile sembra fare i conti in modo sempre più complicato e contraddittorio. Eppure è un giorno che richiama tre momenti storici molto diversi. Ma particolarmente importanti per angolatura, prospettiva e interpretazione del nostro passato.

Il 9 maggio 1936 Benito Mussolini dal balcone di Piazza Venezia declamò con tono trionfale «la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma» per annunciare l’ingresso delle truppe italiane, guidate dal maresciallo Pietro Badoglio, ad Addis Abeba in Etiopia a conclusione di una guerra coloniale e imperialista ideologicamente strutturata sul razzismo di Stato e caratterizzata dai crimini contro la popolazione civile e le forze della Resistenza.

Una vicenda sulla quale a tutt’oggi il Paese, grazie alla «mancata Norimberga italiana» e all’impunità garantita ai «nostri» criminali di guerra dagli equilibri della Guerra Fredda, preferisce guardare attraverso la lente deformante del falso mito degli «italiani brava gente» oppure tramite la rimozione tout court dei fatti coronata nel 2012 dalla costruzione del mausoleo al criminale fascista Rodolfo Graziani ad Affile e ribadita dalla postura pubblica assunta sul tema da Giorgia Meloni nel suo recente viaggio nella capitale etiope.

Il 9 maggio 1945 l’annuncio del governo dell’Urss della capitolazione della Germania nazista, che faceva seguito alla resa tedesca alle forze Alleate sul fronte occidentale, apriva al mondo la porta della fine della seconda guerra mondiale in Europa (il conflitto avrebbe avuto il suo tragico epilogo in agosto con le bombe atomiche sul Giappone). Tuttavia, secondo la logica che vuole la rivisitazione del passato come forma di governo del presente, nel contesto bellico di oggi anche questi eventi, che rappresentano la radice fondativa della nostra società contemporanea, vengono sottoposti ad un uso pubblico della storia che ne fa strumento propagandistico dei governi.

Così a Mosca la sconfitta del nazifascismo ad opera dell’Armata Rossa serve a legittimare l’aggressione militare all’Ucraina ad opera dell’armata russa, mentre a Kiev (dove il collaborazionista filo-nazista e antisemita Stepan Bandera è considerato eroe nazionale) il giorno della vittoria contro il III Reich cambia data e significato per volere di Zelensky e, con il consenso della presidente tedesca della Commissione europea Ursula von der Leyen, si trasforma in una «festa dell’Europa» (e della Nato).

Il 9 maggio, infine, ricorre l’anniversario del ritrovamento a Roma del corpo di Aldo Moro sequestrato e ucciso dalla Brigate Rosse nel 1978 e per questo è stata istituita dal Parlamento la giornata della memoria delle vittime del terrorismo. Un’operazione di «memoria per legge» che interpreta una scelta tanto politicamente «logica» per le istituzioni quanto discutibile per la storia, al netto della drammaticità e della sensazione che l’assassinio dello statista dc provocò allora ed ancora oggi evoca.

Una scelta che temporalmente scavalca tutte le stragi compiute dai gruppi neofascisti coadiuvati dagli apparati di forza dello Stato, da Piazza Fontana in avanti senza dimenticare Portella della Ginestra, e colloca nell’immaginario collettivo il fenomeno del terrorismo tutto dentro «gli anni di piombo» quasi ad obliare gli «anni del tritolo». Una raffigurazione che crea un vuoto di memoria pubblica rispetto alle responsabilità nel decennio dello stragismo, rappresentando l’attacco di un nemico esterno, le Brigate Rosse, «al cuore dello Stato» e contestualmente «dimenticando» che il fenomeno del terrorismo in Italia è nato, molti anni prima del 1978, proprio da quel cuore.

In questa cornice, meno definita di quanto sarebbe invece necessario, ieri al Quirinale sono stati ricordati da Sergio Mattarella (figura che incarna una unicità assoluta essendo fratello di una vittima del terrorismo mafioso che parla ad altri parenti delle vittime del terrorismo politico) alcuni degli eventi di quella stagione politica. Ha avuto una sua peculiarità ascoltare il ricordo dell’assassinio dell’agente di polizia Antonio Marino. Morto a Milano il 12 aprile 1973 nel corso di una manifestazione non autorizzata del Msi dalla quale i neofascisti Vittorio Loi e Maurizio Murelli lanciarono una bomba a mano che lo dilaniò.

A guidare quel corteo insieme ai massimi dirigenti missini Franco Maria Servello e Franco Petronio vi era Ignazio Benito La Russa, ieri seduto in prima fila alla cerimonia in qualità di Presidente del Senato. Così come un sussulto ha provocato la frase pronunciata dal Presidente della Repubblica a proposito della strage del 17 maggio 1973 alla questura di Milano avvenuta «per mano anarchica». Una versione poi rettificata nella comunicazione ufficiale pubblicata sul sito del Quirinale.

Quell’attentato venne realizzato da Gianfranco Bertoli, finto anarchico in realtà neofascista di Ordine Nuovo e già agente informatore del Sifar, nome in codice «Negro». Lanciò una bomba a mano con l’intento di uccidere il ministro dell’Interno democristiano Mariano Rumor «reo», agli occhi degli ordinovisti, di non aver proclamato lo «stato d’emergenza» e sospeso la Costituzione la notte del 12 dicembre 1969 dopo l’eccidio di Piazza Fontana.

Prima della strage Bertoli aveva alloggiato per settimane a Verona nella casa di Marcello Soffiati, ordinovista e agente informativo della Nato in Veneto, dove era stato istruito rispetto alla versione da dare in caso di arresto: dichiararsi anarchico e rilanciare la falsa pista messa in piedi contro Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda. Una goccia nel mare per uno smemorato Paese.

DAVIDE CONTI

da il manifesto.it

foto tratta da Wikipedia