Università, dieci anni di tagli e cinquemila ricercatori in meno

Non è solo una questione di tasse. Il Miur pubblica un rapporto sul personale universitario: crescono i precari, età media alta, pesanti le differenze di genere

La deliberata volontà di ridurre il già modesto settore dell’istruzione universitaria italiana lo vedi dai numeri dello stesso ministero. Sostiene infatti il Miur in un rapporto che il personale docente e non docente è calato da 4.650 professori e ricercatori (il 7,9%). Nel 2010 erano 58.885 nel 2017 sono 54.235 . A causa del massiccio pensionamento crescente sono diminuiti di quasi un quinto i professori ordinari (da 15.169 a 12.156) e i ricercatori (da 24.530 a 19.737).

Non sono stati sostituiti a causa della stretta – allentata qui e lì, ma sempre in maniera insufficiente – sul nuovo organico a cui è soggetta tutta la pubblica amministrazione. Nel periodo considerato sono stati registrati gli effetti devastanti dei tagli, praticati dal governo Berlusconi nel 2008, pari a 1,1 miliardi di euro al fondo ordinario per gli atenei. Più di otto sono stati tagliati alla scuola. Da allora queste risorse non sono mai più state rifinanziate, imponendo a un settore decisivo come quello dell’istruzione e della ricerca, un regime di penuria presentato come la nuova epoca di «meritocrazia». L’Italia è l’unico paese dell’area Ocse ad avere privato di risorse scuola e università nel maggiore momento di crisi. Tutti gli altri hanno fatto la scelta opposta: riversar sul settore nuove risorse, a cominciare dalla Germania.

È cambiato il lavoro di ricerca: è sempre più precario. Consideriamo gli assegni di ricerca rinnovabili sino a 4 anni. Queste figure apicali del precariato infinito che permette agli atenei di restare aperti è cresciuto in maniera considerevole. Gli «assegnisti» sono aumentati da 13.109 nel 2010-11 a 13.946 nel 2016-17 (+6,4%). Il Miur li considera insieme ai ricercatori – che sono invece «incardinati», cioè assunti a tempo indeterminato. Non è proprio la stessa cosa, anzi. Questi ultimi restano, tutti gli altri vengono espulsi al termine dell’ultimo girone di precariato.

Secondo la settima indagine dell’Adi, dopo dieci anni di tagli, solo il 9,2% degli assegnisti di ricerca viene data la possibilità di arrivare a un contratto«fisso». Una differenza enorme. Assegnisti e ricercatori alla base della piramide superano ordinari e associati: 28,1% contro 26,2%. Pesanti le differenze di genere. Le donne sono la maggioranza del personale tecnico-amministrativo (58,5%), 40% tra i docenti e ricercatori, solo il 21% arriva ai vertici. Il primo decennio della crisi lascia un’università esaurita, stanca e rassegnata: l’età media del personale è altissima: 52 anni, 59 anni i professori ordinari, 35 anni gli assegnisti.

ROBERTO CICCARELLI

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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