Tortura, non basta che sia nel codice

In Italia da oggi la tortura è reato. C’è voluto un dibattito parlamentare lungo quasi trent’anni per produrre una legge definita di compromesso dal deputato del Pd Franco Vazio,...

In Italia da oggi la tortura è reato. C’è voluto un dibattito parlamentare lungo quasi trent’anni per produrre una legge definita di compromesso dal deputato del Pd Franco Vazio, relatore del provvedimento. Ma si può accettare o siglare un compromesso su un crimine contro l’umanità?

Il dibattito parlamentare è stato per lunghi tratti triste, incolto, illiberale, ricco di opposizioni pretestuose. Nel nome delle mani libere delle forze dell’ordine si è cercato di renderle immuni da responsabilità. Governi di destra e di sinistra hanno in passato detto no alla tortura. Oggi c’è un reato ad hoc.
Retroguardie culturali hanno condizionato il dibattito pubblico contribuendo a produrre una legge criptica, non rispondente alla definizione presente nella Convenzione Onu contro la Tortura del lontano 1984.
In vari punti la legge approvata ieri è di difficile digeribilità: la previsione della pluralità delle condotte violente affinché vi sia la configurabilità del delitto, il riferimento espresso alla condizione della «verificabilità» del trauma psichico. Un tentativo pacchiano di restringere l’area della punibilità del presunto torturatore. E poi non sono stati previsti tempi straordinari di prescrizione come un crimine di tale tipo richiede. Ed è stata prevista la pena dell’ergastolo contro cui si siamo sempre battuti e ci batteremo sempre.

Era il 10 dicembre del 1998 quando Antigone elaborò la sua prima proposta di legge, fedele al testo delle Nazioni Unite. Non abbiamo mai abbandonato la nostra pressione pubblica e politica su questo tema. Siamo andati davanti a giudici nazionali, europei, organismi internazionali a segnalare questa lacuna gravissima nel nostro ordinamento giuridico. Il manifesto è stato sempre al nostro fianco. Nel tempo i governi che si sono succeduti hanno usato le più svariate strategie di risposta: dilatorie, apertamente oppositive, falsamente disponibili.
Da ieri comunque abbiamo una legge che incrimina la tortura. Possiamo da oggi nelle Corti chiedere che un pubblico ufficiale sia incriminato non per lesioni o abusi vari o maltrattamenti in famiglia (come è accaduto ad Asti) ma per tortura. Purtroppo il delitto è configurato in modo a dir poco arzigogolato. È definito come un delitto generico, ossia che può essere commesso anche da un cittadino comune e non solo da un pubblico ufficiale. Per noi la tortura, nonostante la divergente previsione normativa, è e resta invece un delitto proprio, ossia un delitto che, come ci tramanda il diritto internazionale pattizio e consuetudinario, non può che essere un delitto dei pubblici ufficiali. Da domani il nostro lavoro sarà quello di sempre: nelle ipotesi di segnalazioni di casi che per noi costituiscono «tortura» ci impegneremo affinché la legge sia applicata davanti ai giudici nazionali. E se questi dovessero latitare – un po’ dipende anche da loro, così come dagli avvocati, rendere quella fattispecie operativa – andremo davanti alle Corti internazionali.

Uno sguardo va rivolto alle altre parti della legge ugualmente importanti le quali riguardano la non espulsione di persone che rischiano la tortura nel paese di provenienza e l’estradizione di cittadini stranieri accusati di tortura e attualmente residenti nel nostro paese. Qualora applicate in sede giurisdizionale con ragionevolezza e spirito democratico tali norme potranno salvare molte vite da un lato e rompere il circolo vizioso della impunità dei torturatori di Stato dall’altro.
Nessuno è però così ingenuo dal pensare che ottenuta la legge, buona o brutta che sia, la tortura sarà di conseguenza definitivamente eliminata dalle nostre prigioni, dalle nostre caserme, dai nostri centri per migranti, dalle nostre strade.
Il reato è una condizione necessaria ma non sufficiente per mettere al bando la tortura. È necessario che vi sia un cambio di paradigma che porti la dignità umana al centro delle nostre politiche di sicurezza.

PATRIZIO GONNELLA

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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