Termometro del grave: rimpiangere la lottizzazione della Rai

“Televisione di Stato” è una locuzione inquietante: si percepisce il peso del potere sopra la tv, come se un macigno schiacciasse quei vecchi apparecchi ancora dotati di tubo catodico...

“Televisione di Stato” è una locuzione inquietante: si percepisce il peso del potere sopra la tv, come se un macigno schiacciasse quei vecchi apparecchi ancora dotati di tubo catodico a cui, ogni tanto, dovevi dare qualche botta per farli tornare in asse, in modo che dal nevischio si passasse di nuovo alla visione dei programmi in bianco e nero.
Ma “televisione di Stato” vuole anche dire “servizio pubblico”, quindi un mezzo che si offre all’intera comunità popolare per essere informata su ciò che accade, per divertirsi, per trascorrere del tempo guardando film, documentari, fare cultura e, quindi, dare vita ad un vero e proprio laboratorio sociale imperniato sulla diffusione di massa delle idee.
Terribile e magnifica è, dunque, la televisione che oggi viene superata da Internet, da una nuova vita dei canali stessi che da generalisti passano al monotematicismo e che dalla decisione sui palinsesti passano alle piattaforme “in streaming” dove tutto è possibile: ognuno di noi, pagando, si intende, può vedere quello che vuole e quando vuole.
Non c’è quasi nemmeno più bisogno di avere una guida cartacea tra le mani per gustare la scoperta di cosa trasmetteranno i canali nazionali.
Resistono anche le televisioni locali in questo scenario mutato di moltiplicazione della cosiddetta “offerta”: lo fanno proponendo per lo più produzioni informative che coprono le lacune di quella “tv di Stato” che apre alcune finestre sui panorami regionali ma che, oggettivamente, sono sempre troppo poco rispetto ad una cannibalizzazione guidata dalle notizie nazionali e internazionali.
Dunque, la televisione di oggi, moderna, interattiva e a disposizione di paganti e non paganti con decine di canali in più rispetto al recente passato, si rotola nuovamente nelle peregrinazioni politiche della tanto citata “lottizzazione” dei tempi del pentapartito, quando le tre maggiori forze politiche del Paese si dividevano la presenza rispettivamente su una democristiana Rai Uno, una socialista Rai Due e una comunista Rai Tre.
Generalmente la “lottizzazione” è vista e sentita come un male, come un depotenziamento del pluralismo e una mera spartizione da manuale Cencelli: tutto vero. Non è certo corrispondente al più nobile dei concetti di “servizio pubblico” il taglio della torta televisiva secondo il colore di una precisa parte politica piuttosto che un’altra, lasciando fuori da tutto ciò una ampia fetta del settore Parlamentare e rappresentativo di allora.
Tuttavia, peggiorando la situazione negli anni del dopo-Tangentopoli, con l’avvento del berlusconismo, già in quegli anni ’90 si riteneva la vecchia divisione tripartita della Rai come il male minore rispetto ad un controllo assoluto dell’informazione e dello spettacolo da parte di una sola parte politica, seppure composta da più soggetti anche molto differenti fra loro.
Oggi, siamo davanti ancora ad uno scenario completamente diverso e, quindi, rischiamo di rivalutare nuovamente la cara, buona e vecchia logica spartitoria della “lottizzazione”, se persino un uomo di comunicazione come Berlusconi storce il naso davanti alle nomine proposte dal governo per la presidenza e la direzione della Rai.
Ciò che traspare dalle interviste ufficiali è la richiesta di fare spazio ad un campo liberale che esiste e che, però, non troverebbe culturalmente e politicamente un inserimento nei progetti governativi per la tv di Stato.
La cosiddetta cultura del “sovranismo” sarebbe il nuoto obiettivo messo in campo da chi vuole espandere le sensazioni su vasta scala in tal senso, far partecipe il popolo di una nuova dimensione interpretativa della società fondata sul privilegio etnico, per diritto di nascita in Italia.
Del resto, è perfettamente normale che la cultura di governo, in perfetta sintonia con le metodologie precedenti, mantenendo l’uguale distacco di sempre tra esigenze pubbliche e riferimenti politici di parte, provi a condizionare ciò che più “pubblico” non è, come la Rai, provando a trasmettere quei “valori” con cui si è battuta in campagna elettorale.
E’ l’anormale normalità che da sempre accompagna la disattenzione verso i princìpi costituzionali, che fa deflettere la ragione alla volontà, che mette in scacco la libertà di espressione in nome di quella di condizionamento psicologico-politico-sociale che è connaturata alle esigenze di governo.
Il peggioramento lo si avverte sempre quando ci raggiunge una anche soltanto minima ragione di rimpianto del passato che avevamo criticato, condannato e combattuto.
E’ qui che dovrebbe cominciare non una nuova critica di noi stessi, di una sinistra quasi evanescente, ma semmai uno sguardo al futuro, voltandoci, dando le spalle a ciò che è stato, senza ripetere esperimenti già falliti. Anche recentemente.
Ma prima di tutto, il caso della nuova presidenza Rai ce lo dimostra ampiamente, la battaglia è culturale in un Paese che ha smarrito il senso stesso della cultura e il piacere, quindi, di poterla avere fra le mani con un buon libro, un quotidiano, una televisione che rimette al centro l’alfabetizzazione vera e propria delle masse. Come fece un tempo con il maestro Manzi. Allora si trattava di insegnare a scrivere e leggere a milioni di italiani. Oggi si tratta, con più difficoltà, di comprensione del testo, di analisi del medesimo e di una possibilità di presa di coscienza di ciò che si è scritto, letto e, magari, visto in tv. Sovranismo permettendo…

MARCO SFERINI

29 luglio 2018

foto tratta da Pixabay

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