Storia di Gabriele e della nostra cecità

C’è una notizia, tra le tante importanti che meritano automaticamente le prime pagine, le nove colonne e grandi titoli in grassetto: Gabriele, un giovane non vedente, accompagnato dalla sua...

C’è una notizia, tra le tante importanti che meritano automaticamente le prime pagine, le nove colonne e grandi titoli in grassetto: Gabriele, un giovane non vedente, accompagnato dalla sua bella cagnolona che gli presta la vista e che lo accompagna nei suoi passi, è stato cacciato da una scuola dove si era recato per avere informazioni su un corso per disabili.
La formulazione ufficiale della motivazione è stata espressa in questa frase: “Il pelo del cane può creare allergia tra gli studenti”.
Il giovane e la sua cagnolona sono così usciti dall’istituto perché sono inseparabili non solo per necessità ma anche per amore reciproco. Così gli è stato impedito di avere informazioni sul corso, di poter entrare in un edificio pubblico dove, secondo le vigenti norme locali, è vietato entrare con animali.
Certo, se uno entra a scuola con al guinzaglio una pantera, probabilmente il fatto che venga invitato ad uscire repentinamente è pure logico. Ma se si tratta di un non vedente, di uno studente, di un ragazzo che deve poter avere gli stessi diritti di tutte e tutti, allora il contesto cambia e il problema della “norma”, del rispetto delle regole comuni, diventa oggetto di interpretazione, di malleabilità perché prima viene il rispetto delle persone, degli animali, di tutti gli esseri senzienti e poi viene la “dura lex”.
E’ un punto non secondario se si tiene presente che sovente la Legge (con la elle maiuscola) viene adotta come unico metro di giudizio tra il bene e il male, sovraordinata alla coscienza stessa che dovrebbe ispirare la morale singola e comune.
Ma sappiamo bene che le leggi sono il prodotto di una società determinata su una struttura economica e che l’economia determina la morale e che solo la coscienza singola può, dunque, sottrarsi ad una certa etica pubblica che deriva da un dominio politico.
La morale cambia perché è sempre una sintesi di tante particolarità: ma la coscienza rimane così astrattamente indefinibile nell’essere perfettamente percettibile da ognuno di noi, da non poter essere oggetto ma sempre soggetto dell’esistenza, dell’azione.
La coscienza è buonsenso, è umanità: genuina, intima, profonda essenza dell’umanità che ci fa indignare – si spera… – sentendo la storia del giovane non vedente e della sua cagnolona cacciati dalla scuola. Ma la morale, che quindi non è sempre buona, ci riporta sul binario della regolarità, della correttezza adeguata ad un bene comune che, in questo caso, verrebbe individuato nella protezione degli studenti dalle allergie da pelo di cane.
Un grande, alto senso del “bene comune”, uguale al modo in cui viene trattato ciò che invece dovrebbe essere “bene comune”: la scuola, l’istruzione pubblica, il sapere, la conoscenza.
Sono proprio le politiche liberiste che ci diseducano ad un insano egoismo quotidiano ad aver ridotto ogni prodotto dell’antico stato-sociale ad una appendice del libero mercato, della concorrenza e, quindi, del confronto fondato non sull’accrescimento delle qualità individuali situate nel collettivo vivere, ma sul regime della produttività.
Non c’è spazio per una umana coscienza nel sistema capitalistico dove ogni cosa è merce, dove ogni merce viene trattata come tale senza distinzione tra animato e inanimato.
Poi, che in tutto questo desolante scenario di insensibilità propria della rigidità angolare del capitale si manifestino le peggiori estremità di una brutalità umana tutta protesa all’esaltazione delle paure come fondamento di vita, alla celebrazione dell’odio come sostanza generatrice degli anti-sentimenti anti-sociali, è frutto dei tempi in cui l’impoverimento di massa è utilizzato per gestire le crisi economiche, fare nuovi profitti sulla pelle dei moderni proletari e provare a far ricadere su loro necessità e colpa al tempo stesso.
Sono proprio quelli che possono essere considerati come “piccoli segnali” i momenti della vita di tutti i giorni che ci parlano della bruttura del capitalismo, di un accresciuto non-senso della vita messo nel grembo della vita stessa che ne conserva già uno ancestrale, scrutabile ma non risolvibile.
Il grado di civiltà di una società si misura dall’indignazione che prova verso una ingiustizia, ossia verso una azione che fa un torto ad un nostro simile: umano, animale o vegetale che sia.
Molti troveranno paradossali queste parole. E’ comprensibile. Ma sappiate che più comprensibilità si prova, più passi ancora dovranno essere fatti per liberarsi da addosso del pesante fardello dei tanti pregiudizi, delle tante paure e dei tanti razzismi che ipocritamente ogni giorno diciamo di condannare e di combattere.

MARCO SFERINI

17 aprile 2018

foto tratta da Pixabay

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