Si soffoca non di caldo, ma di odio e di crudeltà

Il razzismo non è strumentalizzabile. Semmai è vero il contrario: è il razzismo a strumentalizzare molte persone, molti cittadini che potrebbero avere una visione equilibrata dei problemi che interessano...

Il razzismo non è strumentalizzabile. Semmai è vero il contrario: è il razzismo a strumentalizzare molte persone, molti cittadini che potrebbero avere una visione equilibrata dei problemi che interessano il Paese e che, invece, davanti ad una semplificazione (per usare un abbondatissimo eufemismo) impostata su criteri di colore, di etnia e di presunta esistenza delle “razze”, sono indotti a ritenere che il nemico del benessere sia il povero, il disgraziato che attraversa il mare con un barcone.
Ancora un volta siamo qui a discutere del “povero che è nemico del e per il povero”, nel senso che lo è contro il suo simile. Non fosse altro che per una mera logica economica, il povero non ruba nulla ad un povero.
Semmai il povero prova a sottrarre qualcosa al ricco. Invece, nella società dove i ricchi profittatori, i padroni, sono sempre più ricchi e dove la ricchezza si concentra in un sempre minore gruppo di individui privilegiati, la questione “di classe” non riesce a farsi largo, la lotta tanto meno e ciò che appare come “elementare” è tremendamente ingarbugliato e ha tante sfaccettature che non basterebbero decine di articoli per poterlo esprimere.
Eppure, in seno al governo della Repubblica (povera Repubblica… ancora una volta…), c’è chi ritiene che il razzismo venga strumentalizzato, utilizzato ad arte per evocare alla critica contro il governo stesso e quindi far apparire lucciole per lanterne.
Mi domando, vi domando: parlare di razzismo, collegarlo alla miseria di larghe fette di popolazione mondiale che si sposta come si sono spostati i cosiddetti “barbari” ai tempi della decadenza imperiale romana, è fare opera di strumentalizzazione?
Dobbiamo tacere? Oppure come ne dobbiamo parlare? In che termini: minimizzando? Affermando che esistono episodi isolati? Che non c’è nessun collegamento, emulazione, effetto domino che sta portando molti italiani a ritenere lecite azioni e leciti comportamenti tali da oltrepassare non solo la Legge ma la semplice, importante, questione umana?
Dai tiri al piccione al giovane scassinatore ucciso crudelmente con calci e botte; dall’atleta Daisy Osakue presa di mira per il colore della sua pelle alla pallottola che ha colpito la bimba perché rom… Tutti episodi scollegati tra loro. Apparentemente. Con una matrice comune: l’odio per la diversità, per un colore, per qualcosa che rende queste persone “altro da noi”.
Noi che ci consideriamo, evidentemente, italiani solo nell’odio, nell’esprimerlo con questa rabbia, nel sovranismo, nel particolarismo nazionale fatto di veemenza, di antagonismo egoistico e di primatismo che scavalca qualunque diritto sociale, qualunque diritti civile e, appunto, umano.
Gli italiani sono uniti, come tutte le “patrie” che si rispettano, solo se si contrappongono a ciò che gli è differente: serve un nemico. Sempre. Serve per cementificare l’appartenenza popolare ad una nazione che per il resto viene sentita tale solo durante le partite di calcio. E quest’anno nemmeno in questo frangente, visto che i mondiali li abbiamo passati a tifare chi per questa, chi per quell’altra squadra tranne che per l’Italia.
Come è forte la percezione nazionale degli italiani: si riversa contro qualcuno. Mai a favore. Soltanto per offesa, mentre la Costituzione, cominciando proprio a parlare di conflitti, ci ammonisce e ci ricorda che l’Italia la ripudia la guerra e la considera uno strumento di morte.
Tutte le guerre, anche quelle che non sembrano essere tali: le guerre di chi vuole dividere i moderni sfruttati tra sfruttati italiani e sfruttati stranieri, reinventandosi la buona morale liberal-liberista secondo cui l’interesse nazionale coincide con gli altri interessi se non subisce penalizzazioni in termini di tradizione, di onore, di rispettabilità tanto della propria storia quanto dei propri profitti fondati su un “made in Italy” troppe volte tradito con le delocalizzazioni: “Fatto in Polonia” con marchio italiano. Ma italiano!
Fatto in Italia con mani cinesi o pakistane. Ma italiano!
Non importa se lo sfruttamento della forza-lavoro, della mano d’opera è polacco, cinese, pakistano: ciò che conta è il profitto che gira, circola, si accresce, mentre i poveri si fanno guerra tra loro pensando che a rubargli la ricchezza sia il migrante, il rom, il sinti che gli vive vicino.
La voluta cattiva gestione del fenomeno migratorio lascia per le strade decine di ragazzotti “di colore” che così fanno dire agli italiani: “Eccoli lì, non fanno nulla tutto il giorno e hanno anche i telefonini”.
Troppi diritti! Non sia mai! Non si considera affatto che oggi un cellulare ha la stesso valore sociale di un bene comune di massa: non è un genere di lusso. Solo i refrattari alle tecnologie moderne evitano di farne uso.
Eppure anche il telefonino viene visto come un bene che non spetta ai poveri, agli ultimi della terra.
Gli tocca solo il pane. A volte nemmeno quello… Magari una morte in mare. Figuriamoci se si pensa a regalargli una rosa ogni tanto (per chi non comprendesse questa frase, si consiglia la lettura delle opere di Rosa Luxemburg).
Tutto questo odio, questa crudeltà e cattiveria è insopportabile, asfittica, claustrofobica da un lato. Dall’altro permette di riconoscersi, almeno a me capita, ancora come esseri umani tra esseri spregevoli, capaci di cambiare opinione, “cultura” e atteggiamento verso il mondo se un governo, uno Stato, un potere qualunque gli racconta ogni giorno che i negri sono brutti, sporchi e cattivi e che la quotidiana sopravvivenza degli italiani è dovuta alla quotidiana sopravvivenza di coloro che, sul piano economico, stanno peggio degli italiani stessi.
Di sfruttamento del lavoro, di nuovo schiavismo, di reintroduzione dei voucher, di abolizione dei diritti sociali praticati per decenni con le privatizzazioni votate da centrodestra e centrosinistra, se ne parla stando attenti a non entrare troppo nel merito di contraddizioni che risulterebbero evidenti se la si smettesse di darsi sulla voce nei dibattiti televisivi e si provasse a ragionare davvero pacatamente, lasciando concludere chi parla e controbattendo con argomentazioni vere. Non con anatemi, slogan e parole muscolari usate come clave per far spazio ad una ignoranza abissale che cresce in un Paese che non legge, non si informa se non superficialmente e crede nell’82% dei casi alle notizie false disseminate su Internet.
Dunque, il razzismo non è strumentalizzabile. Ma lo sono gli italiani che sono esseri umani come tutti: solo stanno imparando a disumanizzarsi, privandosi di coscienza critica, del dubbio, della messa in discussione di chi urla più forte. La ragione non sta nel tono della voce ma nell’umanità espressa dalle parole.
Se le parole sono sempre e soltanto un invito a diffidare, a non essere completamente sicuri e certi che…, a mettere avanti al giudizio una prevenzione che ne fa l’anticamera della revisione della verità, allora ogni urlo va bene, ogni tonalità è consentita.
Se alle orecchie arriva solo l’acuto, tutto il resto dell’opera vorrà dire che è andato perso…

MARCO SFERINI

31 luglio 2018

foto tratta da Pixabay

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