Riflessioni amare sul renzismo e una speranza

Secondo il Codacons negli ultimi sette anni in Italia si sono persi più di 80 miliardi di euro di consumi. Divisa la cifra pro capite, tocca a ciascuno di...

Secondo il Codacons negli ultimi sette anni in Italia si sono persi più di 80 miliardi di euro di consumi. Divisa la cifra pro capite, tocca a ciascuno di noi una compressione della domanda pari a 1.300 euro circa. Come possa il ministro Padoan dirci che nel 2015 l’Italia uscirà da una crisi economica pluriennale è, francamente, difficile da capire o, piuttosto, da saper spiegare.
Matteo Renzi, del resto, da splendido teatrante ripete su Twitter, sui video pubblicati su You Tube e dal sito “Passo dopo passo”, appositamente costruito dal suo esecutivo per dimostrare la concreta volontà di rinnovamento politico, sociale ed economico, che finché si troverà a Palazzo Chigi la strada tracciata è quella che ha intrapreso e che non devierà di un millimetro.

Le tutele al contrario
In queste ultime giornate, questa via diritta e mai smarrita, percorsa con una accelerazione piuttosto sostenuta, è apparsa con i contorni di una controriforma della contrattualistica lavorativa che offre una serie di sgravi alle imprese (e anche questa non è, purtroppo, una novità dei governi che si sono succeduti negli ultimi decenni di vita della Repubblica) e impone ai lavoratori e alle lavoratrici diversificazioni di tutele che vengono proposte in positivo come “in crescita” in riferimento all’anzianità che si ha sul proprio posto di lavoro.
La capacità comunicativa di Renzi è notevole nel mostrare come ciò che è in realtà una diminuzione dei diritti dei lavoratori sia invece una grande conquista sociale del suo governo per liberare da lacci a lacciuoli “ideologici” il modo di di costruzione dei contratti da parte del rapporto tra parti sociali ed esecutivo.
In questa fase di crescita della crisi economica, un capo del governo che riesce a fare questo, a sovvertire letteralmente la verità dei fatti dimostra indubbiamente la sua capacità di afabulatore, ma ci regala anche la misura dell’impotenza sociale, della caduta verticale della coscienza di classe che un tempo avrebbe fatto scoppiare non uno ma più e più scioperi generali.

L’imbarazzo del sindacato
Ovviamente la Cgil non può far finta di niente in questo caso: l’attacco all’articolo 18 non è un attacco meramente emblematico perché rivolto contro la norma che tutela il licenziamento senza giusta causa, ma perché è portato nel momento in cui si mette in campo una più complessa ristrutturazione padronale e finanziaria del mondo del lavoro che individua proprio nelle più elementari tutele l’ostacolo per allargare le maglie da cui far entrare nuove mani che possano prelevare risorse da ceti più deboli e sempre più indifesi.
Da vent’anni tocca descrivere questi meccanismi sempre uguali, che cambiano solamente di qualche virgola, che sono unidirezionali e che si dimostrano sempre più aggressivi in rapporto all’esigenza del mercato di reggere i contraccolpi delle contraddizioni che vive a livello globale nello scontro tra i capitalismi che si affrontano nelle più veloci piazze della finanza internazionale.
E tanto più la posta in gioco è grande e sostanziosa, tanto più tocca ascoltare la ministra Madia sostenere che non è tollerabile assistere alla vasta platea di leggi che regolamentano il lavoro in Italia e che ne hanno fatto un deserto di precarietà.
Strabuzzare gli occhi e stapparsi le orecchie non serve, perché chi ha sostenuto e sostiene tutto questo l’ha portato avanti nei decenni passati con le famigerate riforme che hanno, di volta in volta, ridotto gli spazi dei contratti a settori sempre più microbici sia sul piano dell’estensione e del coinvolgimento delle aziende, sia su quello dell’agibilità sindacale.
Confindustria è stata abilmente superata in questi anni da una classe dirigente politica che ha fatto dell’accondiscendenza ai mercati transnazionali il solo elemento di riferimento per poter continuare a stare a galla, per governare, per avere potere in cambio di stabilità politica e “pace sociale”.

Il continuatore del berlusconismo
Matteo Renzi è solo l’ultimo uomo, forse meno tecnico di Monti e meno politicamente “corretto” di Letta, ma più istrionicamente rassicurante che i poteri economici hanno saputo individuare per assestare nuovi colpi di maglio ai soliti noti che da sempre vengono utilizzati come arance da spremere fino all’ultima goccia per poi buttarne ingenerosamente via la buccia, salvando dalla crisi i grandi evasori fiscali, i grandi finanziari e i banchieri di mezza Italia e di larga parte del Vecchio Continente.
Ciò che impedisce di difendersi dall’aggressione antisociale del governo Renzi è il livello di destrutturazione sociale e civile che in questi anni è stato portato avanti da un degno alleato del presidente del Consiglio: Silvio Berlusconi.
Il Cavaliere nero di Arcore non poteva dire seriamente di essere dalla parte dei lavoratori, se non altro perché non proveniva dalla storia politica di un partito che un tempo era “comunista” (nella sua ex parte diessina) e che è divenuto l’alibi per far dire al giovane ex sindaco di Firenze che è di sinistra, ma non certo di quella sinistra vetero, ideologica e legata a schemi economici che giustamente per niente piacciono al giuslavorista Pietro Ichino, la cui riforma balza all’onore delle cronache anche in queste ore; per la verità ogni volta che si tratta di diminuire i diritti dei lavoratori, il nome di Ichino è il marchio indelebile di questa garanzia.

Semplicità e difficoltà
Lo scenario quindi è abbastanza surreale, ma è vero. Proprio per questo. Perché la gente non crede alla semplicità che potrebbe mettere in essere buttando a mare questo governo e ricostruendo un progetto politico di vera sinistra, a partire dalla ricostruzione di una forza comunista degna di questo nome. Semmai la gente è sedotta dai proclami dell’ultimo salvatore della patria perché si trova sull’orlo del precipizio della disperazione.
Non c’è volontà e tempo per ricostruire un terreno di lotta sociale anticapitalista, antiliberista. Troppo populismo: da Grillo a Renzi, da Berlusconi a Salvini. Differenti le posizioni strettamente politiche interne, ma molto simili i richiami e i proclami. Stili e parole si possono cambiare a seconda dei casi, ma nessuno di loro offre ai lavoratori, agli studenti, ai precari, ai disoccupati una vera soluzione non ai fantasmi, ma alla cruda verità della crisi economica.
E l’unico modo per rovesciare queste illogicità, queste seduzioni pericolose, è rendersi conto una volta per tutte che ci si trova nella condizione dello sfruttamento e non nel “ricevimento” del lavoro.
Ma questo è possibile dopo che si è costretto in parte alla ritirata l’aggressivo esercito liberista condotto da Renzi, Alfano e colonnelli al seguito.

Il compito dei comunisti e della sinistra (quella vera)
In questo contesto la sinistra comunista ha delle colpe se pensa di poter cambiare il corso degli eventi dialogando col Partito democratico per ricreare il centrosinstra, o se la sinistra socialista ed ecologista pensa la stessa cosa…
Non c’è nulla da modificare o da ricreare, perché abbiamo già superato – in questo senso – il punto di non ritorno e non serve chiamare ad una unità una sinistra raccogliticcia attorno ad un’idea di società che non aspiri al cambiamento radicale ma solamente al minimo comun denominatore per un programma altrettanto minimo che salvi le coscienze di qualcuno e gli impedisca di smarrirsi nella diaspora più tragica della storia della parte progressista del Paese.
Fa piacere sentire Corradino Mineo annunciare che è pronto a farsi cacciare dal PD perché non vuole votare Italicum e Job act. Fa piacere sentire le critiche di Bersani e anche quelle dell’oppositore Civati. Ma ridurre ad unità queste diverse criticità, unirle con le forze comuniste e di sinistra radicale è veramente un compito che oggi risulta intempestivo, perché la velocità con cui la politica si muove è davvero vorticosa.
Non ci resta che piangere, allora? Io penso proprio il contrario: non ci resta che costruire una nuova alternativa di società, da comunisti, perché semmai ve ne fosse bisogno, proprio l’esasperante ed esasperato liberismo renziano ci dimostra che occorre creare un nuovo consenso di massa attorno a proposte politiche e sociali non di mediazione, ma di aperta rottura con il continuismo berlusconiano, montiano e lettiano che si rinnova in Renzi e che si propone, con tutta l’ipocrisia che gli si vuole concedere e che, in effetti, ha.
Non credo ai proclami facili sull’unità della sinistra o sulla riunificazione dei comunisti. Facciamo tabula rasa di tutto ciò. Cerchiamo di azzerare le vecchie parole, aggiornando le nostre proposte ad un linguaggio semplice, diretto, immediato. Tanto vero quanto bugiardo è quello di Renzi. Tanto diretto quanto lo è quello di Renzi. Tanto veloce quanto lo è quello di Renzi.
Abbiamo contro i mezzi di informazione? Sicuramente non li abbiamo a favore, e per ragioni che sono connaturate alle ragioni che il sistema difende. Ma se solo vogliamo, abbiamo dalla nostra una critica ragionata, sensata e non la richiesta ma la ricerca della giustizia sociale.
Non possiamo appellarci a Bersani, Civati o Mineo nell’attesa che qualcuno venga a soccorrerci per ricostruire la sinistra e il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori. Non possiamo attendere alcun messia. Dobbiamo, ciascuno di noi, essere protagonisti della rinascita della sinistra in Italia, per un nuovo protagonismo delle comuniste e dei comunisti. La speranza vive e cresce se cammina sulle gambe che portano con sé delle menti critiche e consapevoli che la lotta è lunga e durissima.
La rassegnazione può consegnarci al fuoco esaltatore di Beppe Grillo e ai suoi anatemi ben studiati e congeniati contro la “casta”, ma non risolve la questione centrale: il lavoro. Per questo i pericoli sono molti e tutti sotto i nostri occhi: Renzi che è al governo per conto delle banche centrali; Grillo che agita la rabbia sacrosanta della gente; Berlusconi che rimesta nel torbido; le finte opposizioni interne del PD che non spostano niente e nessuno.
Se vogliamo cambiare, non possiamo contare su altri se non su noi stessi, senza delegare a nessuno il cambiamento reale.

MARCO SFERINI

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