Quel territorio di eccedenze umane

«Esclusi», una raccolta di saggi di autori vari per DeriveApprodi

In genere, il conflitto israeliano-palestinese viene colto come un caso a sé, caratterizzato da tali specificità storiche e, soprattutto, metastoriche, da rendere impossibile ogni comparazione con altri scenari politico-militari. Alle dinamiche e agli eventi che si sviluppano sui territori dell’ex Palestina mandataria si tende così a guardare come a un’eccezione rispetto alla quale non avrebbero presa le categorie e gli schemi con cui si guarda a situazioni più o meno analoghe. Come la diffusione della percezione eccezionalista di un mondo a parte, dove valgono altre regole e altri criteri di giudizio, analitici e politici, risulti funzionale alle strategie di dominio israeliane è un dato talmente scontato da non necessitare di ulteriori precisazioni. Di conseguenza, non si può che guardare con interesse a tutti i tentativi di sottrarre quel conflitto a simili lenti deformanti.
È senza dubbio il caso di Esclusi. La globalizzazione neoliberista del colonialismo di insediamento, una raccolta di saggi curata da Enrico Bartolomei, Diana Carminati e Alfredo Tradardi (DeriveApprodi, pp. 238, euro 18). Come si desume dal titolo, però, il libro si incentra una tematica di ordine più generale, il colonialismo di insediamento, di cui il caso Israele/Palestina viene assunto come caso paradigmatico, a cui è espressamente dedicata la terza parte del volume.

Che cosa si intende per colonialismo di insediamento o settler colonialism? Schematizzando, il termine colonialismo è solitamente chiamato a nominare una gamma di fenomeni che si colloca fra due estremi. A un polo avremmo il colonialismo di sfruttamento, tipico, per esempio, di alcune fasi dell’imperialismo europeo, il cui obiettivo è l’accesso privilegiato alle risorse e ai mercati delle colonie. Al polo opposto si colloca quello di insediamento, in cui una società di coloni si stabilisce in un territorio in posizione dominante allo scopo di farne la propria sede stabile. Se nel primo caso si mira al governo delle popolazioni locali, tramite il minor impegno diretto della metropoli, nel secondo gli indigeni appaiono non come una risorsa da sfruttare quanto nei termini del pericolo o dell’impedimento da rimuovere.
A quest’ultima tipologia appartengono la colonizzazione delle Americhe, in particolare Stati uniti e Canada, o dell’Australia, il cui esito non a caso è stato lo sterminio, in varie forme, delle popolazioni indigene. A tale matrice apparterrebbe anche il sionismo che, di conseguenza, si caratterizzerebbe non genericamente come un’avventura coloniale fuori tempo massimo ma, più specificamente, come un caso di settler colonialism o, ancora meglio, riprendendo Baruch Kimmerling, di settler colonialism a «basso livello di frontiera», diversamente dall’esperienza americana.

In tempi recenti, specie grazie al contributo di Lorenzo Veracini e Patrick Wolfe, il colonialismo di insediamento si è costituito come specifico campo di indagine, generando, come tende ad accadere nel mondo accademico angloparlante, una vera e propria sottopartizione disciplinare, i settler colonialism studies. La posta in gioco dell’operazione non è solo storica, in quanto assumere il colonialismo di insediamento come matrice della modernità e del presente conduce a considerare alla sua luce uno spettro di questioni che vanno dalla condizione postcoloniale all’accumulazione originaria, dalle dinamiche del capitalismo estrattivo alle problematiche delle «eccedenze umane».
Di tale approccio Esclusi si propone di offrire al lettore un primo assaggio. Nella prima parte del volume, a due saggi di Veracini e Wolfe è affidato il compito illustrare le linee generali del concetto di colonialismo di insediamento. Segue una sezione dedicata alla tematizzazione del settler colonialism come matrice del presente, in cui compaiono contributi di quegli stessi autori e di altri, e una terza incentrata sulla Palestina, in cui prendono la parola autorevoli voci come Ilan Pappé e Jamil Hilal, per concludere con una quarta parte dedicata alle riflessioni di Waziyatawin sulle esperienze di occupazione degli indigeni nordamericani e dei palestinesi.

L’idea di identificare nel colonialismo di insediamento e nelle sue specificità una matrice a cui ricondurre alcune dinamiche del presente appare come un’opzione teorica decisamente condivisibile. Il riferimento è non solo alle vicende di Israele/Palestina ma a fenomeni come il landgrabbing, in cui a determinare lo sradicamento e l’espulsione delle forme economiche e delle popolazioni che insistono su un’enorme estensione di territori è non l’insediamento di comunità di coloni ma le monocolture intensive promosse da grandi corporation o fondi più o meno sovrani. Qualche perplessità, viceversa, può sorgere se a esso si intende affidare il ruolo di matrice, di fatto unica e unitaria, delle dinamiche del presente, un esito che non appare estraneo ad alcuni saggi raccolti nel volume. In tal senso, a un primo sguardo, i fenomeni di espulsione, dalle proprie terre o dai sistemi di welfare, dal mercato del lavoro o dai centri urbani, su cui recentemente ha portato l’attenzione Saskia Sassen, potrebbero essere convincentemente ricondotti alle esigenze di un «capitalismo senza riproduzione della forza lavoro», di un capitalismo estrattivo, per usare la formula di David Harvey, che presenterebbe una continuità strutturale con le forme del settler colonialism.

Tuttavia, se si intende utilizzare produttivamente quella formula, sarebbe opportuno ricordare come le dinamiche estrattive del presente si indirizzino non solo alle «materie prime», ma anche al valore prodotto socialmente e le nuove enclosure siano fatte non solo di barriere, polizie private e sistemi di sorveglianza per «tenere fuori» i selvaggi, consegnandoli alla derelizione, ma anche di dispositivi giuridici, finanziari, logistici e algortimici volti non a «escludere» ma a includere in maniera differenziale attivando filiere di estrazione della ricchezza prodotta collettivamente. Per fare qualche esempio, i processi di gentrification si basano non solo sull’espulsione dei residenti ma anche sulla captazione da parte del real estate del valore prodotto dalla socialità degli «indigeni» (che spesso proprio «indigeni» non sono) che rende determinate aree urbane appetibili per popolazioni a più alta fascia di reddito. I ghetti urbani, le «periferie» o gli agglomerati informali non sono solo luoghi «lasciati morire» ma anche contesti in cui si sviluppano stili di vita e modelli estetici appropriati dall’industria culturale e dell’intrattenimento nonché punti di snodo di economie criminali sempre più difficili da scindere dalle economie legali. La stessa economia dei clic, dei like e delle profilazioni su cui si basano le fortune delle web corporation trova nell’espansione della dialettica segmentazione-inclusione il motore attraverso cui mettere al lavoro gratuitamente reti sempre più ampie e differenziate.

A fronte di tutto ciò, parlare di endocolonialismo di insediamento, di una logica di guerra interna/esterna nei confronti di fasce della popolazione ritenute eccedentarie e assimilate agli indigeni sospinti oltre la frontiera o sigillati nelle riserve, come avviene nel contributo più discutibile del volume, quello di John Collins, può risultare una metafora forte ed efficace per segnalare la distanza che ci separa dai modelli di integrazione tipici del fordismo ma rischia di risultare fuorviante per la comprensione delle complesse dinamiche di inclusione differenziale, precarizzazione, gerarchizzazione, stratificazione, mobilitazione alla base delle dinamiche «estrattive» del capitalismo contemporaneo.

MASSIMILIANO GUARESCHI

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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