Lavori pubblici umili e utili per uscire dalla crisi

Un secolo fa l’economista inglese John Maynard Keynes ha suggerito che, quando un paese è in crisi economica e di occupazione, una soluzione consiste nell’investire denaro pubblico in opere...

Un secolo fa l’economista inglese John Maynard Keynes ha suggerito che, quando un paese è in crisi economica e di occupazione, una soluzione consiste nell’investire denaro pubblico in opere di utilità generale, in quelle che una volta si chiamavano “lavori pubblici” e che in Italia avevano addirittura un apposito ministero: strade, ferrovie, porti, edifici pubblici. I soldi pubblici spesi avrebbero assicurato un salario a lavoratori i quali li avrebbero spesi per acquistare quelle merci che fino allora erano fuori dalla portata delle loro tasche. Per produrre tali merci molte imprese avrebbero assunto altri lavoratori che a loro volta sarebbero diventati consumatori di altre merci e così via. Imprenditori e lavoratori avrebbero pagato, in nuove tasse, più di quello che lo stato aveva speso per avviare le opere pubbliche.

La ricetta funzionò, più o meno come aveva suggerito Keynes, negli Stati Uniti durante la prima grande crisi del Novecento; il governo di Franklin Delano Roosevelt, dal 1933 fino alla seconda guerra mondiale, fece, con i soldi dei contribuenti, opere pubbliche utili, anche dal punto di vista ambientale, come difesa del suolo dall’erosione, rimboschimento, centrali elettriche, addirittura fabbriche di concimi e di prodotti chimici “statali” (un‘eresia per il liberalismo americano).

Qualcosa di questo spirito fu recepito anche in Italia negli anni della ricostruzione, dopo il 1945, soprattutto con l’occhio rivolto al Mezzogiorno arretrato. Ce ne siamo dimenticati, ma se il Mezzogiorno ha accorciato le distanze rispetto all’Italia settentrionale più industrializzata è stato per merito delle fabbriche statali, delle strade, della distribuzione ai contadini delle terre abbandonate, delle case “popolari”, della difesa del suolo con rimboschimenti, della regimazione delle acque; i soldi spesi dallo stato sono rientrati, con gli interessi, attraverso le tasse riscosse a mano a mano che nasceva nuova occupazione nelle fabbriche e nei cantieri sorti, nel Sud e nel Nord, per soddisfare la nuova domanda di abitazioni, frigoriferi, televisori, automobili.

Certo, ci sono stati vistosi errori, dovuti a previsioni e a scelte imprenditoriali sbagliate, a localizzazioni errate, ci sono stati episodi di vistosa corruzione, per cui tanto denaro pubblico ha fatto ricchi e ricchissimi pochi mentre avrebbe potuto togliere dalla miseria tanti nostri concittadini.

Col passare dei decenni le parole “stato” e “pubblico” sono diventate politicamente poco corrette davanti alla nuova ideologia della privatizzazione. L’esito sono state le crisi che hanno caratterizzato la seconda metà del Novecento e l’inizio di questo secolo, al punto che si deve di nuovo invocare l’intervento dello stato per opere pubbliche, oggi le chiamano infrastrutture.

Ci sono opere pubbliche elettoralmente redditizie, che consentono di inaugurare autostrade, ferrovie, ponti, con discorsi ufficiali e tanta televisione. Ma ci sono altri umili lavori di grande utilità pubblica e sociale, che richiederebbero l’impiego di migliaia di lavoratori, che non si possono inaugurare con interventi della televisione ma che salverebbero, di tante persone, i beni e i campi e i soldi (e anche molte vite), portati via dalle continue frane e dagli allagamenti di terre e città.

GIORGIO NEBBIA

tratto dal sito web eddyburg.it

foto tratta da Pixabay

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Economia e societàFinanza e capitali

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