La legalità repubblicana e la classe operaia

A 16 anni dal G8 di Genova: un ricordo del 9 gennaio 1950 Il previsto reintegro in servizio di una buona quota dei poliziotti responsabili delle tragiche vicende legate...
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A 16 anni dal G8 di Genova: un ricordo del 9 gennaio 1950

Il previsto reintegro in servizio di una buona quota dei poliziotti responsabili delle tragiche vicende legate al G8 di Genova 2001 (oltre alle posizioni assunte da altri attraverso le nomine negli Enti di Stato come nel caso di Gianni De Gennaro) rappresenta l’ennesima, profonda, irreversibile incrinatura tra gli apparati dello Stato – in particolar modo della Polizia – e la vita sociale, civile, culturale, economica del Paese.

Una situazione storica non certo risolvibile con le scuse postume e inutili del prefetto Gabrielli, mentre nessuno di lor signori, Ministri e Prefetti di Polizia, ha mai pensato di rivolgere una parola di ricordo agli operai uccisi nei tanti conflitti a fuoco durante gli scioperi degli anni ’50 e ’60.

Un’incrinatura che ha una storia lunga e passaggi molto aspri il cui elenco risulterebbe molto lungo da compilare: basterà ricordare Piazza della Fontana e il volo di Pinelli, Ustica e quant’altro.

Il G8, la Diaz, la “macelleria messicana” un altro di questi passaggi, una ferita aperta che oggi rincrudisce con questa aberrante storia del reintegro.

La legalità repubblicana nel rapporto tra la Polizia e il Paese però fu messa in discussione da subito, nell’immediato del post – Liberazione.

Prima di tutto con il reintegro (altro che quello che dovrebbe avvenire adesso) dei funzionari fascisti, compresi alcuni incriminati per crimini di guerra avvenuti specialmente nel territorio della ex – Jugoslavia: testimonia di questo inaccettabile stato di cose il volume di Davide Conti “ Gli uomini di Mussolini: prefetti, questori, e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica Italiana” uscito poco tempo fa per Einaudi. Volume cui si rimanda per gli opportuni approfondimenti.

Successivamente con l’allontanamento dei Prefetti nominati dal CLN.

Soprattutto la rottura immediata tra gli apparati dello Stato e buona parte della società italiana avvenne con la classe operaia e i contadini attraverso la repressione che negli anni’40 – ’50 si verificò al momento dell’occupazione delle terre e degli scioperi in difesa delle fabbriche colpite dal processo di riconversione dell’industria bellica.

Per il movimento operaio la prima metà degli anni ’50 costituì quello che in seguito sarà conosciuto come gli anni duri.

Gli imprenditori mossero un prolungato attacco al potere sindacale che si era sviluppato negli anni immediatamente successivi alla Resistenza e alla Liberazione.

I licenziamenti di massa furono all’ordine del giorno in ogni grande fabbrica e contemporaneamente furono silurati gli attivisti più conosciuti.

Quando il miglioramento economico creò una nuova richiesta di forza – lavoro, gli imprenditori assunsero lavoratori anagraficamente giovani, spesso provenienti dalla campagna, sicuramente troppo distanti cronologicamente per avere partecipato alle lotte del 1943 – 1947.

Le piccole fabbriche erano in aumento e furono libere di imporre le proprie condizioni sui livelli salariali, sulla sicurezza e sul pagamento dei contributi.

Questa offensiva padronale fu intimamente legata a un clima di esplicita repressione politica fomentata dalla guerra di Corea, che aveva drammaticamente acuito la divisione politica interna e mostrava comunisti e socialisti come nemici e traditori della causa della democrazia e della libertà.

Gli USA erano ancora visti come integrali difensori di questi sacri valori e le contestazioni del conflitto vietnamita dovevano ancora venire.

Tra il 1949 e il 1951 il PCI, il PSI e la CGIL rischiarono seriamente di essere messi al bando e la repressione poliziesca in tutta Italia fu devastante.

Eppure i più gravi tormenti per le classi popolari non venivano dalla repressione politica o dall’offensiva padronale ma dalla disoccupazione di massa e dalla miseria:

Nel 1951 si contavano più due milioni di disoccupati.

I caratteri e l’estensione di questa privazione vennero dettagliatamente descritti nell’inchiesta parlamentare sulla povertà: quindici volumi, pubblicati nel 1953, che tinsero di nero un quadro già parecchio scuro. Il 12 ottobre 1951 la Camera dei Deputati deliberava un’inchiesta parlamentare «sulla miseria e sui mezzi per combatterla»; parallelamente veniva avviata anche un’inchiesta sulla disoccupazione. Per vent’anni, il regime fascista aveva abolito lo studio e il dibattito sui problemi sociali: le due inchieste – come scrive Paolo Braghin – segnavano il ritorno del Parlamento a una tradizione prefascista di indagini svolte dal potere legislativo sulle realtà economiche e sociali del nostro paese: tradizione che aveva prodotto i risultati più brillanti con l’inchiesta di Stefano Jacini sull’agricoltura.

Avvennero gravissimi episodi in occasione di scioperi e di iniziative contadine: Melissa, Montescaglioso.

Nel solo 1948 l’anno del 18 Aprile sono 17 i lavoratori uccisi, centinaia i feriti, 14.573 arrestati: tra essi 77 segretari di Camera del Lavoro.

L’impiego della polizia nelle vertenze sindacali è una prassi costante.

L’episodio – simbolo di quel periodo rimane però l’eccidio di Modena del 9 Gennaio 1950

Si dedica a un ricordo di quelle vittime una ricostruzione dei fatti a monito quanto mai attuale di quella frattura della legalità repubblicana da parte della Polizia cui più volte ci siamo richiamati.

Una frattura con la parte più nobile, avanzata, politicamente impegnata dell’Italia di allora : la classe operaia verso la quale va ancor oggi il nostro commosso riconoscimento per aver difeso, in quelle circostanze e pagando prezzi di sangue, la democrazia appena conquistata con la lotta di Liberazione.

Questa la cronaca di quella giornata, veramente fatidica nella storia d’Italia.

Poco dopo le dieci di mattina una decina di lavoratori si trovavano all’esterno della fabbrica vicino al muro di cinta, cercando di parlare con i carabinieri schierati. Un carabiniere sparò con la pistola, a freddo, uccidendo Angelo Appiani [30 anni, partigiano, metallurgico] colpito in pieno petto. Immediatamente dal terrazzo della fabbrica altri carabinieri spararono con la mitragliatrice sulla folla di lavoratori che si trovava sulla Via Ciro Menotti oltre il passaggio a livello chiuso per il transito di un treno.

Arturo Chiappelli [43 anni, partigiano, spazzino] e Arturo Malagoli [21 anni bracciante, la cui sorella Marisa fu poi adottata da Nilde Iotti e Palmiro Togliatti] vennero colpiti a morte, molti furono feriti, alcuni gravemente. La gente scappava, cercava riparo dai colpi della mitraglia che continuava a sparare, altri cercavano di assistere i feriti con medicazioni improvvise e li trasportavano al riparo.

Roberto Rovatti [36 anni, partigiano, metallurgico] si trovava in fondo a Via Santa Caterina, vicino alla chiesa, dal lato opposto e distante 500 metri dai primi caduti, aveva una sciarpa rossa al collo. Mezz’ora era passata dalla prima sparatoria veniva circondato da un gruppo di carabinieri scaraventato dentro un fosso e massacrato con i calci del fucile, un linciaggio mortale.

Ennio Garagnani [21 anni, carrettiere] veniva assassinato in Via Ciro Menotti dal fuoco di un’autoblinda che sparava sulla folla.

Lo sciopero generale partì spontaneamente appena si diffuse la notizia del massacro. Un’automobile della Cgil con l’altoparlante avvertiva i lavoratori di concentrarsi in Piazza Roma.

Poco dopo mezzogiorno Renzo Bersani [21 anni metallurgico] attraversava la strada a piedi, in fondo a Via Menotti, all’incrocio con Via Paolo Ferrari e Monte grappa, un graduato dei CC distante oltre un centinaio di metri si inginocchiò a terra, prese la mira col fucile e sparò per uccidere.

Sei lavoratori assassinati, 34 arrestati, i numerosi feriti trasportati in ospedale vennero messi in stato di arresto, piantonati giorno e notte e denunciata alla magistratura per «resistenza a pubblico ufficiale, partecipazione a manifestazione sediziosa non autorizzata, attentato alle libere istituzioni per sovvertire l’ordine pubblico e abbattere lo Stato democratico».

Era questa l’Italia “democratica” ricostruita dopo il fascismo da padroni e democristiani.

Ricostruita sulla pelle dei proletari e dei lavoratori che venivano sfruttati ferocemente nelle fabbriche e nei campi e, quando si ribellavano, venivano massacrati nelle piazze.

Ma cosa stava succedendo a Modena e nel resto del paese in quegli anni? Era in corso dal 1948 una reazione padronale per azzerare la forza dei lavoratori nelle fabbriche e la tenuta dei sindacati e partiti di sinistra, una forza costruita nella resistenza e nell’immediato dopoguerra.

I padroni volevano abbassare il costo del lavoro e aumentare la produttività per orientare la produzione verso l’esportazione.

Gli strumenti che usarono: la serrata e i licenziamenti collettivi e selettivi per ridurre il potere contrattuale dei sindacati e delle commissioni interne, l’aumento del ventaglio retributivo, salario sempre più legato alla produzione (cottimo e premio di produzione differenziato), intervento della polizia per sciogliere i picchetti e le manifestazioni; scioglimento dei “Consigli di Gestione”.

Nella città di Modena nei due anni 1947-49, ben 485 partigiani furono arrestati e processati per fatti accaduti durante la lotta di liberazione. 3.500 braccianti arrestati e denunciati per occupazione delle terre; 181 volte la polizia intervenne nei conflitti di lavoro.

Le maestranze delle Fonderie Riunite, con 480 lavoratori – la metà erano donne- nel 1943 parteciparono agli scioperi contro la guerra e per il pane. Dopo la “liberazione” i padroni “tornano proprietari”, è questa la scelta democristiana.

Anche il padrone delle Riunite, il fascista Adolfo Orsi amico di Italo Balbo.

Orsi è padrone non solo delle Riunite, ma anche della “Maserati Alfieri”, delle “Candele accumulatori Maserati” e delle Acciaierie.

Come altri padroni fascisti ringalluzziti dalle vittoria democristiana del ’48, padron Orsi inizia con tre giorni di serrata, chiamando la polizia a sgombrare i picchetti. È la prima volta, dopo la liberazione, che a Modena la polizia interviene nel conflitti di lavoro. Sarà la prima di una serie di interventi sempre più aggressivi.

L’anno prima del “massacro” è il 9 gennaio 1949, è domenica e si tiene a Modena un comizio sindacale in piazza Roma, Fernando Santi, segretario generale della Cgil denuncia i licenziamenti e la serrata alla fonderia Vandevit e alla carrozzeria Padana.

Al termine della manifestazione, mentre la gente rientra a casa mescolandosi con chi esce dalla chiesa, si scatena una selvaggia e inspiegabile aggressione poliziesca con camionette e manganellate e perfino colpi d’arma da fuoco.

Il cambio di rotta era stato deciso dall’alto: colpire senza sosta il movimento operaio e sindacale per interromperne l’avanzata e ridurne la capacità contrattuale.

Alla fine di quel ’49, padron Orsi regalò ai “suoi” dipendenti la seconda serrata e il licenziamento di tutti i 560 lavoratori.

L’idea di Orsi era di assumere nuovi lavoratori non sindacalizzati né politicizzati. Le “rivendicazioni” di padron Orsi erano di revisionare in peggio il premio di produzione, abolire il Consiglio di gestione, far pagare la mensa ai lavoratori, togliere le bacheche sindacali e politiche, eliminare la stanza di allattamento che le operaie si erano conquistate per poter andare in fabbrica con i figli.

Dopo un mese di serrata venne la risposta operaia: sciopero generale di tutte le categorie proclamato per il 9 gennaio 1950 in tutta la provincia.

Ma il prefetto e il questore [non dimentichiamo mai che prefetti e questori erano stati traghettati in blocco dal regime fascista a quello democratico/democristiano] negano alla Camera del lavoro qualsiasi piazza per la manifestazione sindacale.

Si racconta che il questore rispose alla delegazione di parlamentari e dirigenti sindacali che chiedevano una piazza: “vi stermineremo tutti”. Dal giorno prima arrivano a Modena ingenti forze di polizia, si dice 1.500 con autoblindo, jeep, camion. Occupano la fabbrica e si dispongono sul tetto con le armi.

Da quel tetto spararono con la mitraglia sui lavoratori per uccidere.

Affoga nel sangue il governo del 18 aprile“, titola a tutta pagina l’Avanti! del giorno dopo.

Modena non fu un fatto isolato. In quegli anni iniziava una repressione antioperaia feroce e sanguinosa [nel 1948 sono stati uccisi 17 lavoratori in conflitti di lavoro, centinaia feriti e 14.573 arrestati]. Il sindacato di classe fu buttato fuori da moltissime aziende, oppure ridotto ed emarginato.

Dopo quella dura sconfitta che dal ’48 si protrasse per tutti gli anni Cinquanta la classe operaia riprese l’iniziativa all’inizio degli anni Sessanta e risultò determinante la reazione al governo Tambroni appoggiato dal MSI e cacciato in piazza dopo scontri a Genova, Roma, Reggio Emilia, Catania, Palermo e tante altre città che costarono ancora 9 morti, decine di feriti e di arrestati compresi parlamentari del Pci e del Psi.

Una storia da non dimenticare, anzi della quale rinnovare ogni giorno la memoria con il pensiero ai nostri Caduti avendo ben presente da quale parte stava la volontà di violare la legalità repubblicana garantita dalla Costituzione: Costituzione che è stata difesa ancora una volta dal popolo anche nell’occasione del voto del 4 dicembre 2016 e non certo dagli apparati dello Stato.

Da Portella della Ginestra alla Diaz, passando per Modena, Reggio Emilia, via Fatebenefratelli a Milano fino alle cariche della Polizia che si rinnovano ancor oggi a ogni manifestazione sindacale è teso il filo nero di una storicamente ingiustificabile repressione verso chi difende il proprio lavoro, la propria dignità e la democrazia repubblicana.

FRANCO ASTENGO

foto tratta da Wikipedia

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Lo scaffale della storia

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