Il Leone britannico volta le spalle all’Europa

33 milioni di britannici si sono divisi quasi nettamente in due schieramenti opposti: 16 milioni di loro hanno votato per rimanere nel recinto dell’Unione Europea; 17 milioni hanno invece...

33 milioni di britannici si sono divisi quasi nettamente in due schieramenti opposti: 16 milioni di loro hanno votato per rimanere nel recinto dell’Unione Europea; 17 milioni hanno invece scelto l’uscita, la cosiddetta “Brexit.
Ognuno si preoccupa dei suoi particolari problemi e, per un attimo, sembra che il risultato del referendum si traduca in tante piccole necessità per la tenuta di un Regno Unito che, a seconda delle spinte che si mostrano sin da subito, sembra sempre meno unito e sempre più protagonista di un cambiamento radicale nella storia del Vecchio Continente.
Il Sinn Fein, ad esempio, ha già fatto sapere che, se confermato il dato della vittoria della Brexit, come del resto è confermato dalla Commissione nazionale per il voto, chiederà un pronunciamento simile per l’Irlanda del Nord: deve Belfast uscire dalla Unione Europea e seguire le sorti del regno di Sua Maestà Britannica o deve, invece, tornare alla madrepatria, all’isola di Michael Collins e Eamon De Valera?
Gli indipendentisti scozzesi non sono da meno e, a meno di un anno dal referendum sulla separazione dall’unione nazionale di più nazioni, tornano a reclamare il diritto di ricontrattare termini e condizioni di permanenza nell’alleanza che forma il regno di Elisabetta II.
Insomma, il risultato del voto referendario è un terremoto del grado più alto della ipotetica scala politica tellurica che potremmo immaginare.
Le euforiche borse europee, che ieri notte alle prime avvisaglie dei sondaggi di opinione che davano l’ “in” in vantaggio sull’ “out” con uno stacco di sei o sette punti, sono state spinte sotto una vera e propria doccia scozzese. Una geleta di cuori, monete, interessi e un riscaldamento di altrettante speranze per chi ritiene che l’uscita dai vincoli e dai patti di Bruxelles possa essere la riappropriazione di una indipendenza completa del Regno Unito che, comunque, sino ad oggi ha conservato molta autonomia sia in campo monetario (mantenendo la propria moneta), sia in campo di adattamento alle legislazioni e ai regolamenti della UE.
Così, se la sterlina intanto precipita ai minimi storici, dalla parte continentale, dalla nostra parte, si osserva dagli alti piani della Banca Centrale e della Commissione Europea un dato incontrovertibile: il Parlamento britannico potrebbe anche eludere il consenso popolare, ma per una nazione democratica come la Gran Bretagna sarebbe la rottura di un rapporto plurisecolare di intesa tra la gente e le istituzioni di Sua Maestà. La correttezza proverbiale dei britannici non lo consente, ma più di tutto non lo consente una chiara volontà di popolo.
Fino a poche ore fa non avevo particolare predilezione per l’una o l’altra scelta: trovavo ragioni in entrambe; nel rimanere nella UE vedevo la possibilità di legare lotte continentali sul piano sociale e formare quella sinistra di alternativa di cui tanto c’è bisogno per contrastare le politiche liberiste della locomotiva germanica, di Draghi e Juncker; nell’uscita dalla UE, del resto, vedevo la possibilità di esercitare liberamente una decisione popolare, di esprimersi su una gabbia che era diventata troppo stretta persino per un paese che era, e rimane, la seconda economia europea in termini di forza, tenuta e concorrenzialità.
Si può ben capire cosa significhi per i paesi con al collo il cappio del debito la permanenza nell’Unione Europea, se si pensa alla Gran Bretagna come ad un colosso che decide di fare le valigie e abbandonare un consorzio esclusivamente fondato sul monetarismo e sul potere delle banche e della finanza.
Posso solo affermare questo, in chiusura di queste brevi note: vedo che lo spread è precipitato dall’euforico dato iniziale di 190 a – 170; vedo che le borse tremano e aprono tutte in ribasso; vedo che i mercati finanziari, come titolano i più grandi giornali economici sia italiani che europei, sono terrorizzati.
Se sono così tanto spaventati non si può che convenirne che qualcosa di buono è stato fatto. La Brexit non è una mossa, un atto di sinistra, tanto è vero che lo stesso Labour di Corbyn aveva invitato a votare contro l’uscita dell’isola dall’Europa politica ed economica.
Però la “working class” britannica ha votato, invece, in larga parte per questa uscita da un continente politico che resta a direzione tedesca e che non voleva arrivare ad essere la fotocopia di paesi sotto strozzinaggio, sotto ricatto costante. La forza dell’economia inglese ha consentito a Londra di salvaguardarsi, di mantenere un tasso di disoccupazione basso (sul 5% nazionale). Ma i segnali che sono arrivati da Bruxelles e Strasburgo non hanno certo rassicurato: abbiamo visto tutti come la Troika ha trattato i popoli che non potevano ripagare il loro debito. Che questo diventi il futuro proprio, quello che invece non si vuole assolutamente vivere e rivivere nella memoria di ciò che si è già visto, è stato un elemento che ha certamente pesato sulla scelta del popolo britannico.
Questo sì è un giorno storico: ci troviamo a commentare una scelta importante e anche drastica, se si vuole proprio darle una connotazione anche emozionale, che creerà per molto tempo scompiglio, disappunto e disarmo nella “fortezza-Europa”.
Forse la sinistra europea, dal Portogallo all’Italia, dalla Spagna alla Francia, dalla Germania alla Polonia, dalla Grecia all’Austria può farne un momento di grande unità di intenti e, senza dimenticare il rapporto stretto che deve mantenere con la tendenza socialista di Jeremy Corbyn, provare a darsi una struttura unitaria e a farsi movimento continentale. Per cambiare l’Europa, non per distruggerla. Forse, una volta cambiata, anche i britannici vorranno magari tornarne a farne parte.

MARCO SFERINI

24 giugno 2016

foto tratta da Pixabay

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