Hitler un film dalla Germania. Processo al Führer

Una collettiva elaborazione del lutto nel "film fiume" di Hans-Jürgen Syberberg

Cancellata dal Nazismo, la cinematografia tedesca stentò a ravvivarsi anche dopo la Seconda guerra mondiale. Nella Repubblica Democratica Tedesca la scarna produzione (nel 1946 vennero realizzati solo 9 film) alternava pellicole con qualche ambizione artistica sotto il controllo sovietico (Rotation diretto da Wolfgang Staudte nel 1949) a film con molta propaganda dopo la nascita ufficiale della DDR (Unser täglich Brot per la regia di Slatan Dudow del 1949). Nella Repubblica Federale di Germania, invece, gli “Alleati” videro nel cinema uno strumento per “colpevolizzare e rieducare” il popolo tedesco. Vennero quindi diffusi prevalentemente documentari sui campi di concentramento, azione che fece orientare gli spettatori, non casualmente, verso il cinema di importazione americano. Il risultato fu l’affossamento dell’industria cinematografica della Germania Ovest al punto che nel 1962 vennero prodotti solo 63 film. Ma il 26 febbraio dello stesso anno, in occasione dell’annuale edizione dell’Internationale Kurzfilmtage Oberhausen (Festival internazionale del cortometraggio di Oberhausen), ventisei giovani cineasti firmarono il cosiddetto “Manifesto di Oberhausen” dando vita alla Neuer Deutscher Film o Junger Deutscher Film, al Nuovo cinema tedesco (stagione cinematografica raccontata nel documentario della BBC Signs of Vigorous Life: The New German Cinema).

Nel 1962 ventisei giovani cineasti firmarono il cosiddetto “Manifesto di Oberhausen” dando vita alla Neuer Deutscher Film o Junger Deutscher Film, al Nuovo cinema tedesco

Questa nuova corrente cinematografica, ispirata alla Nouvelle Vague francese e al Neorealismo italiano, incontrò raramente il successo commerciale (i film statunitensi occupavano oltre il 90% della distribuzione) e riuscì a farsi spazio solo grazie a cospicui finanziamenti statali. Con questa lungimirante politica la cinematografia tedesca tornò prepotentemente sulla scena internazionale grazie ai firmatari del “Manifesto”. Tra questi vanno ricordati l’estremo Werner Herzog (Aguirre, furore di Dio e L’enigma di Kaspar Hauser), il poetico Wim Wenders (Alice nelle città), il malinconico Rainer Werner Fassbinder (Le lacrime amare di Petra von Kant e Il mondo sul filo), il teorico Edgar Reitz (Heimat); l’eclettico Alexander Kluge (La ragazza senza storia), l’elegante Margarethe von Trotta (Il secondo risveglio di Christa Klages) e il più sperimentale e innovativo di tutti Hans-Jürgen Syberberg, autore del monumentale Hitler, un film dalla Germania.

Figlio di un proprietario terriero della Pomerania, Syberberg nacque a Nossendorf l’8 dicembre del 1935. Dieci anni dopo, terminata la guerra, si trasferì con la famiglia a Berlino Est. Appassionato di letteratura, musica, arte e teatro, si avvicinò casualmente al cinema. Tra il 1952 e il 1953, infatti, filmò in 8 mm alcuni spettacoli di Bertolt Brecht con il Berliner Ensemble (il teatro dove nel 1928 venne rappresentata per la prima volta “L’opera da tre soldi”), lavori che successivamente vennero montati in un unico film e distribuiti nel 1972 col titolo Nach meinem letzten Umzug.

Hans-Jürgen Syberberg

Syberberg nel 1953 emigrò nella Germania Ovest prima a Berlino poi, nel 1956, a Monaco dove si laureò in letteratura tedesca all’Università Ludwig Maximilian, con una tesi sul tema dell’assurdo nell’opera del drammaturgo Friedrich Dürrenmatt. Nella prima metà degli anni ’60, dopo essere stato tra i promotori del “Manifesto di Oberhausen”, passò definitivamente dietro la macchina da presa, realizzando più di ottanta documentari televisi. Da segnalare: Fünfter Akt, Siebte Szene. Fritz Kortner probt Kabale und Liebe (1965) e Fritz Kortner spricht Monologue für eine Schallplatte (1966) dedicati a Fritz Kortner, attore teatrale e cinematografico (Ombre ammonitrici, Lulu o Il vaso di Pandora), Wilhelm von Kobell (1966) sull’omonimo pittore, Romy. Anatomie eines Gesichts (1967) documentario, tagliato e manipolato dalla produzione, dedicato a Romy Schneider e Die Grafen Pocci – einige Kapitel zur Geschichte einer Familie (1968) incentrato sulla figura dello scrittore e musicista Franz von Pocci.

Scarabea – Di quanta terra ha bisogno un uomo? (1969)

Nel 1968 Syberberg girò il suo primo film di finzione Scarabea – Wieviel Erde braucht der Mensch? (Scarabea – Di quanta terra ha bisogno un uomo?), liberamente tratto dal racconto di Lev Tolstoj “Se di molta terra abbia bisogno un uomo”. Nella pellicola un volgare e chiassoso turista tedesco (Walter Buschhoff) decide di comprare un terreno, sarà suo tutto ciò che avrà percorso dall’alba al tramonto, persuade gli abitanti, ma una ragazza (Nicoletta Machiavelli) gli tende molte insidie.

Il regista sostituì alla steppa di Tolstoj, la Costa Smeralda della Sardegna, ma nonostante la coproduzione italo-tedesca, in Italia il film venne trasmesso, in lingua originale con sottotitoli in italiano, solo nell’agosto del 2007 nella trasmissione “Fuori orario”. Il titolo della pellicola, distribuita nel 1969, si riferisce a due scarabei che lottano per spingere una palla di sterco, simbolo dell’inutilità delle fatiche umane.

Ludwig – Requiem per un re vergine (1972)

Densità simbolica delle immagini che caratterizzarono anche il successivo San Domingo (1970) in cui il regista, partendo da un racconto del drammaturgo Heinrich von Kleist, mostrò la rabbia e gli eccessi di una comunità rocker dell’estrema sinistra tedesca.

Negli anni successivi Syberberg iniziò a lavorare ad una trilogia tedesca incentrata sulla storia, la cultura, l’arte, la musica della Germania. Con uno stile personalissimo, “fatto di deformazioni visionarie, contaminazioni storiche, uso eterogeneo di materiali, sovrapposizioni di immagini e trucchi artigianali, con un insistito ricorso alla cosiddetta front projection (fondali e schermi di proiezione inseriti nel set)” (Socci) realizzò prima Ludwig – Requiem für einen jungfräulichen König (Ludwig – Requiem per un re vergine, 1972) sulla figura di Ludovico II di Baviera la cui immagine si rifrange in un caleidoscopio delirante e iperreale di visioni in cui, tra passato e futuro, si riversa l’anima wagneriana della Germania decadente e poi espressionista. Fece seguito un documentario con un’intervista immaginaria al cuoco del protagonista, Theodor Hierneis oder: Wie man ehem. Hofkoch wird (1972).

Karl May (1974)

Il secondo film della trilogia fu Karl May (1974) in cui il regista raccontò, tramite una fitta tessitura di suoni e immagini, fondali dipinti, monologhi e scene corali, la stravagante vita e l’opera del noto scrittore di avventure esotiche (celebri i suoi romanzi western) facendone una metafora delle utopie totalizzanti e autodistruttive dello spirito germanico. Successivamente realizzò Winifred Wagner und die Geschichte des Hauses Wahnfried von 1914-1975 (1977) un documentario-intervista a Winifred Wagner moglie di Siegfried Wagner (figlio del compositore Richard Wagner) che nel 1923 conobbe Adolf Hitler divenendone una convinta sostenitrice.

Germania “sopra tutto” e soprattutto. Ma in quegli anni c’era ancora un tabù. Secondo le parole dello storico Saul Friedländer, i tedeschi: “Sono stati intrappolati tra l’impossibilità di ricordare e l’impossibilità di dimenticare” la loro “anima nera”. Syberberg ruppe quel tabù e dedicò il terzo e ultimo capitolo della “trilogia” alla figura più tristemente nota della Germania, nacque così Hitler, ein Film aus Deutschland (Hitler, un film dalla Germania, 1977) un “film fiume”, oltre sette ore di durata (429 minuti), capace di rappresentare la cultura tedesca da Wagner al Führer, una sorta di cerimoniale cinematografico che immerse la figura del dittatore in una collettiva elaborazione del lutto.

Hitler, un film dalla Germania (1977)

L’ascesa al potere di un ex imbianchino, diventato oscuro caporale e, dopo alcuni anni, eletto Cancelliere: Adolf Hitler. Come andranno a finire le cose è storia nota. Ma non si tratta della solita narrazione a carattere storico o biografico. Introdotto dalla voce del regista, che farà da filo conduttore a tutto il film, l’opera è divisa in quattro parti. Nella prima Von der Weltesche bis zur Goethe-Eiche von Buchenwald (Il Graal – Dal frassino cosmico alla quercia di Goethe) il regista si sofferma sul culto della personalità di Hitler nella propaganda nazista; nella seconda Ein deutscher Traum … bis ans Ende der Welt (Il sogno tedesco… fino alla fine del mondo) si concentra, invece, sulla propaganda nazista legata al patrimonio culturale, spirituale e nazionale della Germania pre nazista; nella terza Das Ende eines Wintermärchens und der Endsieg des Fortschritts (La fine di una favola invernale e la vittoria finale del progresso) Syberberg racconta, col particolare punto di vista di Heinrich Himmler, l’ideologia dietro la Shoah; nella quarta parte, infine, Wir Kinder der Hölle erinnern uns an das Zeitalter des Grals (Noi figli dell’inferno ricordiamo l’era del Graal) il poeta André Heller legge la sceneggiatura di scene mai girate e, relazionandosi con un burattino con le sembianze di Hitler, lo accusa di aver distrutto spiritualmente la Germania e attacca chi ha tratto profitto dall’era nazista.

Attori in carne ed ossa, marionette, persone che interpretano se stessi, burattinai, interpreti con più ruoli. Il cast di Hitler, un film dalla Germania rispecchiò l’originalità della pellicola. Pressoché sconosciuti nel nostro Paese, sono da segnalare il già citato André Heller, scrittore che tra il 1976 e il 1981 apparve in numerosi film; Harry Baer piuttosto noto in Germania per le pellicole girate con Rainer Werner Fassbinder; Heinz Schubert, omonimo di una SS, diede vita ad alcune rappresentazioni di Hitler e Himmler; Peter Kern, che aveva già lavorato con Syberberg interpretando Ludovico II in Ludwig, divenne il burattinaio di Goering; Hellmut Lange ricoprì tre ruoli (cameriere di Hitler, burattinaio di Goebbels, una SS); Rainer Artenfels già protagonista di Karl May, fece cinque parti; Martin Sperr divenne il massaggiatore di Himmler; Johannes Buzalski, all’ultima pellicola, interpretò l’Hitler imbianchino. Piccole parti, infine, per Alfred Edel, Peter Lühr e Amelie Syberberg, figlia del regista, ovvero la bambina che attraversa tutto il film con un burattino in mano, ritratto mitizzato della democrazia in Germania.

Amelie Suberberg, figlia del regista, rappresenta la democrazia in Germania

Presentato nella sezione un Certain Regard al Festival di Cannes nel 1978, Hitler, un film dalla Germania non può considerarsi ne un film storico ne un documentario, ma uno smisurato film-saggio in cui il Syberberg rifletté sul significato del Nazismo nella storia e nella cultura tedesca. Il regista, per realizzarlo, si spinse nella direzione di un’assoluta e radicale originalità sperimentale, con una messa in scena marcatamente teatrale: macchina da presa frontale, e sullo sfondo un grande schermo su cui scorrono immagini emblematiche (comprese le trasmissioni radio della Seconda guerra mondiale e discorsi originali, resi disponibili grazie alla partecipazione al progetto della BBC). L’arte cinematografica vista come approdo di diverse tradizioni drammaturgiche (dalla tragedia greca al “dramma a stazioni” dei misteri medioevali) e molteplici valenze pittoriche, letterarie e musicali (dal Romanticismo all’Espressionismo), dove si amalgano la concezione dell'”opera d’arte totale” vagheggiata da Wagner e il carattere epico e di straniamento didattico tipico del teatro di Brecht.

Un film radicale che incontrò, ancor prima dell’uscita nelle sale, numerose difficoltà. Ad inizio film la voce del regista, infatti, informa che: “Tutto quello che vedrete è liberamente inventato. Tutti i personaggi e gli avvenimenti storici, anche eventuali somiglianze, sono puramente casuali. Non si tratta di uno scherzo purtroppo, per motivi legali si è qui costretti a fare questa dichiarazione. Trenta eredi di Hitler si sono già fatti avanti accampando diritti, e non soltanto loro. Quelle pretese sarebbero lecite proprio perché Hitler in realtà non è mai stato processato…”.

Per questo Syberberg, da sempre critico della decadenza del mondo moderno, provò col suo film a fare un “processo” al Führer. Semplice quanto provocatorio l’atto di accusa: Hitler non fu solo un mostro, ma la proiezione di un popolo. “Nessun uomo è stato così amato e odiato” e poiché “L’uomo può entusiasmarsi sia per il bene, sia per il male”, fare un processo al dittatore vuol dire fare un processo al popolo, per dare una chance al popolo bisogna darla anche al Führer. Sul banco degli imputati di Syberberg non finì così solo il personaggio che è diventato “l’emblema della cattiva coscienza dei sistemi democratici”, ma ci sono finiti tutti.

una messa in scena più teatrale che cinematografica

Forse proprio per questo l’accoglienza nelle sale fu tiepida e la pellicola venne rivalutata solo dopo la presa di posizioni di alcuni intellettuali, da Susan Sontag che lo definì “Il film più straordinario che io abbia mai visto, e una delle grandi opere d’arte del ventesimo secolo” ai filosofi francesi Philippe Lacoue-Labarthe e Michel Foucault.

Hitler, un film dalla Germania fu una co-produzione franco-britannico-tedesca, dal produttore Bernd Eichinger alla BBC, e uscì il 5 novembre 1977 nel Regno Unito, il 7 giugno 1978 in Francia, l’8 luglio 1978 nella Germania Ovest e il 13 gennaio 1980 negli Stati Uniti, grazie all’interessamento di Francis Ford Coppola. In Italia venne, invece, trasmesso nella versione originale con sottotitoli (doppiata solo la voce fuori campo del regista) solo su Rai3, nella solita “Fuori orario”, nella notte tra il 24 e il 25 aprile 1999.

Nella filmografia di Syberberg a Hitler, un film dalla Germania, seguì Parsifal (1982), adattamento dell’omonima opera di Wagner. Sul set avvenne l’incontro con Edith Clever. L’attrice diventò sua moglie e interpretò le successive pellicole del regista: Die nacht (1985), Edith Clever liest Joyce, Fräulein Else (1987), Penthesilea (1987), Die Marquise von O. “vom Süden in den Norden verlegt” (1990), Ein Traum, was sonst (1994) per lo più monologhi dell’attrice ripresi a teatro.

Hans-Jürgen Syberberg intervistato nel 2015 davanti al poster del suo capolavoro

Ma quell'”Hitler” dal genere inclassificabile, “più teatrale che cinematografico, spesso genialoide, in cui trovano posto l’Espressionismo e Brecht, il circo e le avanguardie, gli attrezzi da sexy shop” (Mereghetti) e la storia del cinema (da segnalare, tra gli altri, la boccia con la neve di Quarto potere e la sagoma di Caligari), rappresentò la vetta della carriera del regista che sentenziò: “Hitler è stato la più grande star dello spettacolo. Io voglio ucciderlo con le sue stesse armi: con Wagner, con il fantastico, con la realtà di un paese che lo ha voluto e amato”. Un film che in occasione del suo quarantennale andrebbe riscoperto.

MARCO RAVERA

redazionale


Bibliografia
“Hans-Jürgen Syberberg” di Stefano Socci – La nuova Italia
“Una stagione all’inferno. Hans-Jürgen Syberberg e la questione della colpa nel cinema tedesco” di Guido Vitiello – Ipermedium Libri
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2017” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi

Immagini tratte da
Immagine in evidenza Screenshot del film Hitler, un film dalla Germania, foto 1 da thefilmstage.com, foto 2 da en.wikipedia.com, foto 3 Scarabea – Di quanta terra ha bisogno un uomo?, foto 4 Screenshot del film Ludwig – Requiem per un re vergine, foto 5 Screenshot del film Karl May, foto 6, 7, 8 Screenshot del film Hitler, un film dalla Germania, foto 9 da Youtube.com

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