Da Augusto a Di Maio, l’impossibile “abolizione” della povertà

Giulio Cesare era abituato a cambiare le sorti della politica manu militari: sia quando con le proprie vittorie in numerose campagne di acquisizione di nuovi territori alla Repubblica romana...
Augusto

Giulio Cesare era abituato a cambiare le sorti della politica manu militari: sia quando con le proprie vittorie in numerose campagne di acquisizione di nuovi territori alla Repubblica romana influenzava le mosse del Senato (e quindi della classe borghese dell’epoca) sia quando decideva di varcare il confine del Rubicone e iniziare così una nuova guerra civile.
Augusto, invece, che gli era figlio adottivo e non aveva lo stesso carattere e nemmeno la stessa conformazione fisica del “divo” padre, aveva compreso che con la sola forza delle armi si potevano contenere certe spinte di determinati ambiti di potere dello Stato romano (lo scrive egli stesso nelle “Res gestae”: “A diciannove anni, a mie spese, con un esercito da me formato restituii a libertà la Repubblica oppressa da una fazione.”) ma non si poteva, al contempo, governare la fase successiva: quella della ricostruzione, quella della formazione del consenso.
Proprio in ciò l’imperatore riuscì in un capolavoro d’arte politica: la sua auctoritas era il punto su cui si incentrava ogni potestas e quindi il nuovo rifondatore di Roma, il pater patrie proclamato dal Senato (che era stato epurato varie volte…) era pari a tutti in nomina dei poteri, condividendoli, gestendoli al pari degli altri magistrati, dei senatori e dei comandanti militari, ma la sua “autorità”, la forza morale e politica che deteneva ne faceva il primo fra loro, quindi un re senza essere re, un principe senza essere sovrano, un imperatore con, formalmente, una repubblica da amministrare.
La grandezza di un simile progetto politico, da gestire sul fronte di immensi confini, significava dover mettere mano anche all’amministrazione economica dell’impero: schierare più di 200.000 uomini sui limes e lasciarli in permanenza lì, ad osservare dall’altra parte il territorio barbarico, inesplorato o quasi dalle legioni, voleva dire assicurare loro una vita decente, quindi paghe sicure.
Ed Augusto questo fece: una riforma economica dello Stato romano, stabilendo che l’intervento pubblico in una economia che era privata soltanto nei piccoli commerci e che affidava alle strutture coloniali e ai regni dipendenti da Roma una autonomia gestionale in campo tributario (sempre e solo a vantaggio dell’impero), dovesse essere la priorità.
Livellò molte disparità economiche ma tenne a saldare gli interessi dei grandi possidenti con quelli della “media borghesia” romana e imperiale. Un liberismo, potremmo definirlo, controllato da una monarchia nascente che voleva ancora avere le sembianze di una repubblica dove il cesarismo a cui si faceva riferimento era l’ultimo, quello proprio di Cesare che era profondamente amato dalla plebe che lo vedeva come il principale nemico dei nobili.
Ma all’epoca di Augusto non esisteva il libero mercato, quindi non esisteva l’accumulazione di capitali attraverso fabbriche di grandi dimensioni, impianti industriali gestiti da un solo uomo; tuttavia una lotta di classe era presente, seppure inconsapevolmente tra vecchi patrizi e ordini equestri e proletari che erano classificati come “plebaglia” e relegati a ruolo di “popolo”. Genericamente inteso, il popolo comprendeva anche quei ricchi senatori che non ebbero vita facile sotto la “dittatura perpetua” di Giulio Cesare, benché essa fosse stata, effettivamente, di brevissima durata e quindi quasi indolore per le loro sostanze auree.
Rispetto a questo passato fatto di abilità politiche, di grandi conquiste e di stabilizzazione della vita di un impero tricontinentale dove tutti, pur vivendo nel terrore quotidiano, vivevano con un tasso di povertà relativamente accettabile per un mondo privo di grandi distribuzioni di massa delle merci, oggi noi assistiamo a magniloquenti proclamazioni di una “abolizione della povertà” stessa che sembrano ricalcare quel passato di “vicinanza” nei confronti del popolo.
Un evento simile sarebbe fantastico se potesse essere semplicemente annunciato e attuato immediatamente dopo.
Luigi Di Maio non credo pensi di essere Giulio Cesare che nel suo testamento devolvette metà delle sue sostanze al popolo romano. Non penso nemmeno che ritenga di avere le capacità oratorie di Mecenate o l’abilità di un grande ingegnere militare e costruttore come Marco Agrippa. Non penso che si percepisca come un grande stratega, al pari di Augusto. Se ciò pensa, credo sia in errore, anche se gli va riconosciuto che i suoi consiglieri hanno fatto bene a suggerirgli di affacciarsi dal balcone di Palazzo Chigi per mostrare, come – quello sì, uno dei più grandi statisti mai esistiti – Winston Churchill poco dopo la resa incondizionata della Germania nel maggio del 1945 – la “V” di vittoria per aver ottenuto il 2,4% di crescita del debito pubblico per finanziare il reddito di cittadinanza.
Con la sortita balconata ha recuperato certamente sull’immagine, ha reso visibile e tangibile la riconquista di una posizione offuscata all’interno dell’ambito di governo da tanti mesi di salviniana esposizione sui temi dei migranti e sulla sicurezza in generale.
Ora le due anime che compongono il governo giallo-verde sono nuovamente in parità: possono dire di giocare la partita delle prossime elezioni europee partendo dalla stessa linea del “via”. Entrambi si giovano dei successi reciproci che ci parlano e ci dicono: “Vedete, sappiamo sfidare l’Europa non solo sul terreno delle migrazioni e costringerla a cambiare rotta, ma pure su quell’altro terreno impervio che è la questione economica. L’Europa ci dice 1,9%, ci ordina di non sforare i parametri del debito? E noi tiriamo diritto, andiamo avanti lo stesso.”.
La ricostruzione dei dialoghi di questi giorni, burrascosi, intercorsi tra il ministro Tria e i due vicepresidenti del Consiglio è più o meno questa: da un lato il tecnico che vuole attenersi (“Per il bene della Patria”) al regime di mercato; dall’altro i ribelli, i grandi rivoluzionari popolari, quelli della “Manovra del popolo”, che invece tengono duro, sfidano Bruxelles e provano a scimmiottare Augusto nello sfidare il nemico indebolito di una Europa dove Merkel e Macron perdono mordente e dove i populismi e i neonazismi avanzano sulla spinta del disastro sociale complessivo.
Il gioco è chiarissimo ed anche molto pericoloso perché può spingere una certa opposizione di sinistra (di sinistra, non quindi il PD) a scegliere di parteggiare per i mercati, per i grandi capitali visti come i salvatori della Patria (Tria docet) davanti alla pericolosa ascesa dell’isolamento italiano dal resto d’Europa.
La Gran Bretagna, del resto, ne è quasi fuori, mentre Francia e Germania arrancano politicamente con accanto una Spagna timidamente socialista e un blocco dell’Est europeo tutto schierato su posizioni euroscettiche e quindi molto poco amiche del liberismo macroniano e merkeliano.
La situazione, dunque, sembra propendere bene per chi come Di Maio e Salvini intende sfidare la fortezza Europa.
Noi, a sinistra, siamo davvero messi male se ci tocca pure tradire la centralità delle nostre politiche e persino le nostre idee affidandoci al salvataggio di Mario Draghi.
Serve riposizionarsi subito, con tutte le insufficienze e le deficienze organizzative e dentro la più grande destrutturazione politica dal dopoguerra ad oggi per i comunisti e le comuniste, per i socialisti di sinistra, per i libertari e progressisti in generale.
Occorre adottare come bussola la convinzione che non possiamo stare con il governo dell’elemosina sociale e tanto meno con i mercati dello stritolamento sociale.
Gli uni, interclassisti e filo-padronali, condurranno il Paese ad un aumento vertiginoso del debito per le prossime generazioni; gli altri proveranno, anche in presenza di un governo che apparentemente gli è ostile, ad accrescere esclusivamente i loro profitti.
E chi le rappresenta quelle esigenze e quei bisogni del moderno proletariato, inconsapevole di consegnarsi mani e piedi ad un carnefice che appare una balia, un accomodante nume tutelare?
Riposizionare la sinistra di alternativa, dunque. Come? Iniziando a scrollarsi da addosso tutti i velleitarismi inconcludenti: settarismi e isolazionismi da un lato, voglie di centrosinistra dall’altro.
La via da percorrere è in mezzo a queste posizioni estreme e deleterie: preservare l’autonomia comunista e farne al contempo luogo di sviluppo di una ritrovata idea dell’alterità rispetto a tutto ciò che ci circonda.
Riconnettere la sinistra con la praticità del quotidiano, essere in ogni luogo di lotta con le nostre bandiere, senza vergogna o paura di essere piccoli e ininfluenti.
Pensarsi così è già una sconfitta. Mettersi attorno a tanti tavoli e dialogare da posizioni anche molto differenti è l’imprescindibilità che è difficile a farsi, ma necessaria. Il cosiddetto, famigerato ormai, “quarto polo” non è irrealizzabile. E’ invisibile, forse, proprio perché non esiste una volontà comune di connessione tra le diverse anime della sinistra anticapitalista e antiliberista.
Ma noi sappiamo che non c’è altra strada possibile e che il pensarsi da soli come bastanti a recuperare un consenso disperso e ormai sordo al richiamo dei valori di uguaglianza, democrazia, libertà e giustizia sociale, è il peggiore dei servizi che possiamo rendere alla causa dell’emancipazione degli sfruttati.
Non è affatto semplice battere una doppiezza governativa che sembra avere la capacità di far apparire popolare ciò che si riverserà invece contro i ceti più deboli della nostra società. Non è facile affermare che 780 euro oggi sono nulla davanti alla costruzione di politiche di espansione del lavoro stabile, garantito, contrattualmente fisso.
Superare la concezione precaria del lavoro, abolire la normalità delle chiamate temporanee, dello sfruttamento giovanile che determina la mortificazione di tante risorse anche intellettuali.
Riqualificare ogni settore pubblico per ridare forza soprattutto a chi è più debole e non può accedere alla piena soddisfazione dei propri diritti costituzionalmente garantiti.
Noi sappiamo che davanti non abbiamo la grandezza politica di Augusto. Abbiamo tante piccolezze, tante particolarità politiche che possono essere mostrate ai cittadini: ma occorre farlo come quando si smaschera un mago davanti al suo allibito pubblico.
Bisogna scoprire il trucco e renderlo manifesto. Altrimenti l’illusione l’avrà sempre vinta.

MARCO SFERINI

29 settembre 2018

foto tratta da Pixabay

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